I GRANDI POETI CLASSICI...

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    SALVATORE QUASIMODO, Lettera alla madre.







    «Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
    il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
    gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
    non sono triste nel Nord: non sono
    in pace con me, ma non aspetto
    perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
    da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
    come tutte le madri dei poeti, povera
    e giusta nella misura d'amore
    per i figli lontani.

    Oggi sono io
    che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
    di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
    e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
    lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
    «Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
    di treni lenti che portavano mandorle e arance,
    alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
    di sale, d'eucalyptus.

    Ma ora ti ringrazio,
    questo voglio, dell'ironia che hai messo
    sul mio labbro, mite come la tua.
    Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
    E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
    per tutti quelli che come te aspettano,
    e non sanno che cosa.

    Ah, gentile morte,
    non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
    tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
    del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
    non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
    Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
    morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»



    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:03
     
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    Al padre

    SALVATORE QUASIMODO !







    Dove sull’acque viola
    era Messina, tra fili spezzati
    e macerie tu vai lungo binari
    e scambi col tuo berretto di gallo
    isolano. Il terremoto ribolle
    da due giorni, è dicembre d’uragani
    e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
    nei carri merci e noi bestiame infantile
    contiamo sogni polverosi con i morti
    sfondati dai ferri, mordendo mandorle
    e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
    del dolore mise verità e lame
    nei giochi dei bassopiani di malaria
    gialla e terzana gonfia di fango.

    La tua pazienza
    triste, delicata, ci rubò la paura,
    fu lezione di giorni uniti alla morte
    tradita, al vilipendio dei ladroni
    presi fra i rottami e giustiziati al buio
    dalla fucileria degli sbarchi, un conto
    di numeri bassi che tornava esatto
    concentrico, un bilancio di vita futura.

    Il tuo berretto di sole andava su e giù
    nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
    Anche a me misurarono ogni cosa,
    e ho portato il tuo nome
    un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
    Quel rosso del tuo capo era una mitria,
    una corona con le ali d’aquila.
    E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
    ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
    di partenza colorati dalla lanterna
    notturna, e qui da una ruota
    imperfetta del mondo,
    su una piena di muri serrati,
    lontano dai gelsomini d’Arabia
    dove ancora tu sei, per dirti
    ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
    di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
    cicale del biviere, agavi lentischi,
    come il campiere dice al suo padrone:
    “Baciamu li mani”. Questo, non altro.
    Oscuramente forte è la vita.


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:06
     
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    QUASI UN MADRIGALE

    Salvatore Quasimodo










    Il girasole piega a occidente

    e già precipita il giorno nel suo

    occhio in rovina e l'aria dell'estate

    s'addensa e già curva le foglie e il fumo

    dei cantieri. S'allontana con scorrere

    secco di nubi e stridere di fulmini

    quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,

    e da anni, cara, ci ferma il mutarsi

    degli alberi stretti dentro la cerchia

    dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno

    e sempre quel sole che se ne va

    con il filo del suo raggio affettuoso.



    Non ho più ricordi, non voglio ricordare;

    la memoria risale dalla morte,

    la vita è senza fine. Ogni giorno

    è nostro. Uno si fermerà per sempre,

    e tu con me, quando ci sembri tardi.

    Qui sull'argine del canale, i piedi

    in altalena, come di fanciulli,

    guardiamo l'acqua, i primi rami dentro

    il suo colore verde che s'oscura.

    E l'uomo che in silenzio s'avvicina

    non nasconde un coltello fra le mani,

    ma un fiore di geranio
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    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:10
     
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    SULLE RIVE DEL LAMBRO



    Illeso sparì da noi quel giorno
    nell'acqua coi velieri capovolti.
    Ci lasciarono i pini,
    parvenza di fumo sulle case,
    e la marina in festa
    con voce alle bandiere
    di piccoli cavalli.

    Nel sereno colore
    che qui risale a morte della luna
    e affila i colli di Brianza,
    tu ancora vaga movendo
    hai pause di foglia.

    Le api secche di miele
    leggere salgono con le spoglie dei grani,
    già mutano luce le Vergilie.

    Al fiume che solleva ora in un tonfo
    di ruota il vuoto della valle,
    si rinnova l'infanzia giocata coi sessi.

    Mi abbandono al suo sangue
    lucente sulla fronte,
    alla sua voce in servitú di dolore
    funesta nel silenzio del petto.
    Tutto che mi resta è già perduto:

    Nel nord della mia isola e nell'est
    è un vento portato dalle pietre
    ad acque amate: a primavera
    apre le tombe degli Svevi;
    i re d'oro si vestono di fiori.

    A pparenza d'eterno alla pietà
    un ordine perdura nelle cose
    che ricorda l'esilio.
    Sul ciglio della frana
    esita il macigno per sempre,
    la radice resiste ai denti della talpa.
    E dentro la mia sera uccelli
    odorosi di arancia oscillano
    sugli eucalyptus.

    Qui autunno è ancora nel midollo
    delle piante; ma covano i sassi
    nell'alvo di terra che li tiene;
    e lunghi fiori bucano le siepi.
    Non ricorda ribrezzo ora il tepore
    quasi umano di corolle pelose.
    Tu in ascolto sorridi alla tua mente:
    E quale sole leviga i capelli
    a fanciulle in corsa;
    che gioie mansuete e confuse paure
    e gentilezza di pianto lottato,
    risorgono nel tempo che s'uguaglia!
    Ma come autunno, nascosta è la tua vita.

    Anche tramonta questa notte
    nei pozzi dei declivi; e rulla il secchio
    verso il cerchio dell'alba.

    Gli alberi tornano di là dai vetri
    come navi fiorite.
    O cara,
    come remota, morte era da terra.




    Salvatore Quasimodo

    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:14
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    Lambro

     
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    Le due strade



    Guido Gozzano




    Tra bande verdi gialle d’innumeri ginestre
    la bella strada alpestre scendeva nella valle.

    Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vista
    apparve una ciclista a sommo del pendio.

    Ci venne incontro: scese. “Signora: Sono Grazia!”
    sorrise nella grazia dell’abito scozzese.

    “Tu? Grazia? la bambina?” – “Mi riconosce ancora?”
    “Ma certo!” E la Signora baciò la Signorina.

    La bimba Graziella! Diciott’anni? Di già?
    La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!

    “La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!…”
    “Signora, si ricorda quelli anni?” – “E così bella

    vai senza cavalieri in bicicletta?…” – “Vede…”
    “Ci segui un tratto a piede?” – “Signora, volentieri…”

    “Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato: un amico
    caro di mio marito. Dagli la bicicletta…”

    Sorrise e non rispose. Condussi nell’ascesa
    la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.

    E la Signora scaltra e la bambina ardita
    si mossero: la vita una allacciò dell’altra.

    .

    Adolescente l’una nelle gonnelle corte,
    eppur già donna: forte bella vivace bruna

    e balda nel solino dritto, nella cravatta,
    la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.

    Ed io godevo, senza parlare, con l’aroma
    degli abeti l’aroma di quell’adolescenza.

    – O via della salute, o vergine apparita,
    o via tutta fiorita di gioie non mietute,

    forse la buona via saresti al mio passaggio,
    un dolce beveraggio alla malinconia!

    O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte;
    discendere alla Morte come per rive calme,

    discendere al Niente pel mio sentiere umano,
    ma avere te per mano, o dolcesorridente!

    Così dicevo senza parola. E l’altra intanto
    vedevo: triste accanto a quell’adolescenza!

    Da troppo tempo bella, non più bella tra poco
    colei che vide al gioco la bimba Graziella.

    Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
    d’un fiore che disfiora, e non avrà domani.

    Sotto l’aperto cielo, presso l’adolescente
    come terribilmente m’apparve lo sfacelo!

    Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
    troppo, le tinte ciglia e l’opera del bistro

    intorno all’occhio stanco, la piega di quei labri,
    l’inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,

    gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
    in altro tempo belli d’un bel biondo sereno.

    Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
    colei che vide al gioco la bimba Graziella.

    – O mio cuore che valse la luce mattutina
    raggiante sulla china tutte le strade false?

    Cuore che non fioristi, è vano che t’affretti
    verso miraggi schietti in orti meno tristi;

    tu senti che non giova all’uomo soffermarsi,
    gettare i sogni sparsi, per una vita nuova.

    Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
    e non avrai per mano la dolcesorridente,

    ma l’altro beveraggio avrai fino alla morte:
    il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. –

    Queste pensavo cose, guidando nell’ascesa
    la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.



    Erano folti intorno gli abeti nell’assalto
    dei greppi fino all’alto nevaio disadorno.

    I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli
    brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;

    e prossimi e lontani univan sonnolenti
    al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.

    Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l’amore
    che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi.

    Di quali aromi opimo odore non si sa:
    di resina? di timo? o di serenità?…



    Sostammo accanto a un prato e la Signora, china,
    baciò la Signorina, ridendo nel commiato.

    “Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
    si prenda un po’ di the, si cicaleccia un po’…”

    “Verrò, Signora; grazie!” Dalle mie mani, in fretta,
    tolse la bicicletta. E non mi disse grazie.

    Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio;
    la macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo,

    d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato
    da un non so che d’alato volgente con le rote.

    Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
    sottile d’alabastro, scendeva nella valle.

    “Signora!… Arrivederla!…” gridò di lungi, ai venti.
    Di lungi ebbero i denti un balenio di perla.

    Tra la verzura folta disparve, apparve ancora.
    Ancor s’udì: “…Signora!…”. E fu l’ultima volta.

    Grazi è scomparsa. Vola – dove? – la bicicletta…
    “Amica, e non m’ha detto una parola sola!”

    “Te ne duole?” – “Chi sa!” – “Fu taciturna, amore,
    per te, come il Dolore…” – “O la Felicità!…”




    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:17
     
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    LA SIGNORINA FELICITA ( OVVERO LA FELICITA' )

    Guido Gozzano






    Signorina Felicita, a quest’ora
    scende la sera nel giardino antico
    della tua casa. Nel mio cuore amico
    scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
    e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
    e quel dolce paese che non dico.

    Signorina Felicita, è il tuo giorno!
    A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
    e il buon aroma si diffonde intorno?
    O cuci i lini e canti e pensi a me,
    all’avvocato che non fa ritorno?
    E l’avvocato è qui: che pensa a te.

    Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
    Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
    coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
    dannata, e l'orto dal profumo tetro
    di busso e i cocci innumeri di vetro
    sulla cinta vetusta, alla difesa....

    Vill’Amarena! Dolce la tua casa
    in quella grande pace settembrina!
    La tua casa che veste una cortina
    di granoturco fino alla cimasa:
    come una dama secentista, invasa
    dal Tempo, che vestì da contadina.

    Bell’edificio triste inabitato!
    Grate panciute, logore, contorte!
    Silenzio! Fuga delle stanze morte!
    Odore d’ombra! Odore di passato!
    Odore d’abbandono desolato!
    Fiabe defunte delle sovrapporte!

    Ercole furibondo ed il Centauro,
    la gesta dell’eroe navigatore,
    Fetonte e il Po, lo sventurato amore
    d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
    Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
    tra le braccia del Nume ghermitore....

    Penso l’arredo - che malinconia! -
    penso l’arredo squallido e severo,
    antico e nuovo: la pirografia
    sui divani corinzi dell’Impero,
    la cartolina della Bella Otero
    alle specchiere.... Che malinconia!

    Antica suppellettile forbita!
    Armadi immensi pieni di lenzuola
    che tu rammendi pazïente.... Avita
    semplicità che l’anima consola,
    semplicità dove tu vivi sola
    con tuo padre la tua semplice vita!

    Quel tuo buon padre - in fama d’usuraio -
    quasi bifolco, m’accoglieva senza
    inquietarsi della mia frequenza,
    mi parlava dell’uve e del massaio,
    mi confidava certo antico guaio
    notarile, con somma deferenza.

    «Senta, avvocato....» E mi traeva inqueto
    nel salone, talvolta, con un atto
    che leggeva lentissimo, in segreto.
    Io l’ascoltavo docile, distratto
    da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
    da quel disegno strano del tappeto,

    da quel salone buio e troppo vasto....
    «.... la Marchesa fuggì.... Le spese cieche....»
    da quel parato a ghirlandette, a greche....
    «dell’ottocento e dieci, ma il catasto....»
    da quel tic-tac dell’orologio guasto....
    «....l’ipotecario è morto, e l’ipoteche....»

    Capiva poi che non capivo niente
    e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
    è morto, è morto!!...» - «E se l’ipotecario
    è morto, allora....» Fortunatamente
    tu comparivi tutta sorridente:
    «Ecco il nostro malato immaginario!

    Sei quasi brutta, priva di lusinga
    nelle tue vesti quasi campagnole,
    ma la tua faccia buona e casalinga,
    ma i bei capelli di color di sole,
    attorti in minutissime trecciuole,
    ti fanno un tipo di beltà fiamminga....

    E rivedo la tua bocca vermiglia
    così larga nel ridere e nel bere,
    e il volto quadro, senza sopracciglia,
    tutto sparso d’efelidi leggiere
    e gli occhi fermi, l’iridi sincere
    azzurre d’un azzurro di stoviglia....

    Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
    rideva una blandizie femminina.
    Tu civettavi con sottili schermi,
    tu volevi piacermi, Signorina:
    e più d’ogni conquista cittadina
    mi lusingò quel tuo voler piacermi!

    Ogni giorno salivo alla tua volta
    pel soleggiato ripido sentiero.
    Il farmacista non pensò davvero
    un’amicizia così bene accolta,
    quando ti presentò la prima volta
    l’ignoto villeggiante forestiero.

    Talora - già la mensa era imbandita -
    mi trattenevi a cena. Era una cena
    d’altri tempi, col gatto e la falena
    e la stoviglia semplice e fiorita
    e il commento dei cibi e Maddalena
    decrepita, e la siesta e la partita....

    Per la partita, verso ventun’ore
    giungeva tutto l’inclito collegio
    politico locale: il molto Regio
    Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
    ma - poichè trasognato giocatore -
    quei signori m’avevano in dispregio....

    M’era più dolce starmene in cucina
    tra le stoviglie a vividi colori:
    tu tacevi, tacevo, Signorina:
    godevo quel silenzio e quegli odori
    tanto tanto per me consolatori,
    di basilico d’aglio di cedrina....

    Maddalena con sordo brontolio
    disponeva gli arredi ben detersi,
    rigovernava lentamente ed io,
    già smarrito nei sogni più diversi,
    accordavo le sillabe dei versi
    sul ritmo eguale dell’acciottolio.

    Sotto l’immensa cappa del camino
    (in me rivive l’anima d’un cuoco
    forse....) godevo il sibilo del fuoco;
    la canzone d’un grillo canterino
    mi diceva parole, a poco a poco,
    e vedevo Pinocchio, e il mio destino....

    Vedevo questa vita che m’avanza:
    chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
    aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
    ed ecco rifioriva la speranza!

    Giungevano le risa, i motti brevi
    dei giocatori, da quell’altra stanza.

    Bellezza riposata dei solai
    dove il rifiuto secolare dorme!
    In quella tomba, tra le vane forme
    di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
    bianca bella così che sussultai,
    la Dama apparve nella tela enorme:

    «È quella che lasciò, per infortuni,
    la casa al nonno di mio nonno.... E noi
    la confinammo nel solaio, poi
    che porta pena.... L’han veduta alcuni
    lasciare il quadro; in certi noviluni
    s’ode il suo passo lungo i corridoi....»


    Il nostro passo diffondeva l’eco
    tra quei rottami del passato vano,
    e la Marchesa dal profilo greco,
    altocinta, l’un piede ignudo in mano,
    si riposava all’ombra d’uno speco
    arcade, sotto un bel cielo pagano.

    Intorno a quella che rideva illusa
    nel ricco peplo, e che morì di fame,
    v’era una stirpe logora e confusa:
    topaie, materassi, vasellame,
    lucerne, ceste, mobili: ciarpame
    reietto, così caro alla mia Musa!

    Tra i materassi logori e le ceste
    v’erano stampe di persone egregie;
    incoronato delle frondi regie
    v’era Torquato nei giardini d’Este.
    «Avvocato, perchè su quelle teste
    buffe si vede un ramo di ciliegie?»

    Io risi, tanto che fermammo il passo,
    e ridendo pensai questo pensiero:
    Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
    tre ceste, un canterano dell’Impero,
    la brutta effigie incorniciata in nero
    e sotto il nome di Torquato Tasso!

    Allora, quasi a voce che richiama,
    esplorai la pianura autunnale
    dall’abbaino secentista, ovale,
    a telaietti fitti, ove la trama
    del vetro deformava il panorama
    come un antico smalto innaturale.

    Non vero (e bello) come in uno smalto
    a zone quadre, apparve il Canavese:
    Ivrea turrita, i colli di Montalto,
    la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
    e il mio sogno di pace si protese
    da quel rifugio luminoso ed alto.


    Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,
    ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
    c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
    di lotte e di commerci turbinosi,
    la cosa tutta piena di quei «cosi
    con due gambe» che fanno tanta pena....

    L’Eguagliatrice numera le fosse,
    ma quelli vanno, spinti da chimere
    vane, divisi e suddivisi a schiere
    opposte, intesi all’odio e alle percosse:
    così come ci son formiche rosse,
    così come ci son formiche nere....

    Schierati al sole o all’ombra della Croce,
    tutti travolge il turbine dell’oro;
    o Musa - oimè - che può giovare loro
    il ritmo della mia piccola voce?
    Meglio fuggire dalla guerra atroce
    del piacere, dell’oro, dell’alloro....

    L’alloro.... Oh! Bimbo semplice che fui,
    dal cuore in mano e dalla fronte alta!
    Oggi l’alloro è premio di colui
    che tra clangor di buccine s’esalta,
    che sale cerretano alla ribalta
    per far di sé favoleggiar altrui....

    «Avvocato, non parla: che cos’ha?»
    «Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
    a piccole miserie, alla città....
    Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...»
    «Qui, nel solaio?...» - «Per l’eternità!»
    «Per sempre? accetterebbe?...» - «Accetterei!»

    Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
    e prigioniero. Stavasi in riposo
    alla parete: il segno spaventoso
    chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
    Come lo vellicai sul corsaletto
    si librò con un ronzo lamentoso.


    «Che ronzo triste!» - «È la Marchesa in pianto....
    La Dannata sarà, che porta pena....»
    Nulla s’udiva che la sfinge in pena
    e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
    O mio carino tu mi piaci tanto,
    siccome piace al mar una sirena....

    Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:
    «È Maddalena inqueta che si tardi:
    scendiamo: è l’ora della cena!» - «Guardi,
    guardi il tramonto, là.... Com’è di fuoco!...
    Restiamo ancora un poco!» - «Andiamo, è tardi!»
    «Signorina, restiamo ancora un poco!...»

    Le fronti al vetro, chini sulla piana,
    seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
    giunse col vento un ritmo di campana,
    disparve il sole fra le nubi rotte;
    a poco a poco s’annunciò la notte
    sulla serenità canavesana....


    «Una stella!...» - «Tre stelle!...» - «Quattro stelle!...»
    «Cinque stelle!» - «Non sembra di sognare?...»
    Ma ti levasti su quasi ribelle
    alla perplessità crepuscolare:
    «Scendiamo! È tardi: possono pensare
    che noi si faccia cose poco belle....»

    Ozi beati a mezzo la giornata,
    nel parco dei Marchesi, ove la traccia
    restava appena dell’età passata!
    Le Stagioni camuse e senza braccia,
    fra mucchi di letame e di vinaccia,
    dominavano i porri e l’insalata.

    L’insalata, i legumi produttivi
    deridevano il busso delle aiole;
    volavano le pieridi nel sole
    e le cetonie e i bombi fuggitivi....
    Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
    inebbriata dalle mie parole.


    «Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
    Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
    terminare la vita che m’avanzi
    tra questo verde e questo lino bianco!
    Se Lei sapesse come sono stanco
    delle donne rifatte sui romanzi!

    Vennero donne con proteso il cuore:
    ognuna dileguò, senza vestigio.
    Lei sola, forse, il freddo sognatore
    educherebbe al tenero prodigio:
    mai non comparve sul mio cielo grigio
    quell’aurora che dicono: l’Amore....»

    Tu mi fissavi.... Nei begli occhi fissi
    leggevo uno sgomento indefinito;
    le mani ti cercai, sopra il cucito,
    e te le strinsi lungamente, e dissi:
    «Mia cara Signorina, se guarissi
    ancora, mi vorrebbe per marito?»

    «Perchè mi fa tali discorsi vani?
    Sposare, Lei, me brutta e poveretta!...»
    E ti piegasti sulla tua panchetta
    facendo al viso coppa delle mani,
    simulando singhiozzi acuti e strani
    per celia, come fa la scolaretta.

    Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
    che sussultavi come chi singhiozza
    veramente, né sa più ricomporsi:
    mi parve udire la tua voce mozza
    da gli ultimi singulti nella strozza:
    «Non mi ten....ga mai più.... tali dis.... corsi!»

    «Piange?» E tentai di sollevarti il viso
    inutilmente. Poi, colto un fuscello,
    ti vellicai l’orecchio, il collo snello....
    Già tutta luminosa nel sorriso
    ti sollevasti vinta d’improvviso,
    trillando un trillo gaio di fringuello.

    Donna: mistero senza fine bello!

    Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
    luceva una blandizie femminina;
    tu civettavi con sottili schermi,
    tu volevi piacermi, Signorina;
    e più d’ogni conquista cittadina
    mi lusingò quel tuo voler piacermi!

    Unire la mia sorte alla tua sorte
    per sempre, nella casa centenaria!
    Ah! Con te, forse, piccola consorte
    vivace, trasparente come l’aria,
    rinnegherei la fede letteraria
    che fa la vita simile alla morte....


    Oh! questa vita sterile, di sogno!
    Meglio la vita ruvida concreta
    del buon mercante inteso alla moneta,
    meglio andare sferzati dal bisogno,
    ma vivere di vita! Io mi vergogno,
    sì, mi vergogno d’essere un poeta!

    Tu non fai versi. Tagli le camicie
    per tuo padre. Hai fatta la seconda
    classe, t’han detto che la Terra è tonda,
    ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....
    Mi piaci. Mi faresti più felice
    d’un’intellettuale gemebonda....

    Tu ignori questo male che s’apprende
    in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
    tutta beata nelle tue faccende.
    Mi piaci. Penso che leggendo questi
    miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
    ed a me piace chi non mi comprende.


    Ed io non voglio più essere io!
    Non più l’esteta gelido, il sofista,
    ma vivere nel tuo borgo natio,
    ma vivere alla piccola conquista
    mercanteggiando placido, in oblio
    come tuo padre, come il farmacista....

    Ed io non voglio più essere io!

    Il farmacista nella farmacia
    m’elogïava un farmaco sagace:
    «Vedrà che dorme le sue notti in pace:
    un sonnifero d’oro, in fede mia!»
    Narrava, intanto, certa gelosia
    con non so che loquacità mordace.

    «Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
    Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
    La Signorina è brutta, senza seno,
    volgaruccia, Lei sa, come una cuoca....
    E la dote.... la dote è poca, poca:
    diecimila, chi sa, forse nemmeno....»

    «Ma dunque?» - «C’è il notaio furibondo
    con Lei, con me che volli presentarla
    Lei; non mi saluta, non mi parla....»
    «È geloso?» - «Geloso! Un finimondo!...»
    «Pettegolezzi!...» - «Ma non Le nascondo
    che temo, temo qualche brutta ciarla....»

    «Non tema! Parto.» - «Parte? E va lontana?»
    «Molto lontano.... Vede, cade a mezzo
    ogni motivo di pettegolezzo....»
    «Davvero parte? Quando?» - «In settimana....»
    Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
    nel plenilunio settembrino, al rezzo.

    Andai vagando nel silenzio amico,
    triste perduto come un mendicante.
    Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
    su quel dolce paese che non dico.
    La Luna sopra il campanile antico
    pareva «un punto sopra un i gigante».


    In molti mesti e pochi sogni lieti,
    solo pellegrinai col mio rimpianto
    fra le siepi, le vigne, i castagneti
    quasi d’argento fatti nell’incanto;
    e al cancello sostai del camposanto
    come s’usa nei libri dei poeti.

    Voi che posate già sull’altra riva,
    immuni dalla gioia, dallo strazio,
    parlate, o morti, al pellegrino sazio!
    Giova guarire? Giova che si viva?
    O meglio giova l’Ospite furtiva
    che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

    A lungo meditai, senza ritrarre
    la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
    s’udiva il grido delle strigi alterno....
    La Luna, prigioniera fra le sbarre,
    imitava con sue luci bizzarre
    gli amanti che si baciano in eterno.

    Bacio lunare, fra le nubi chiare
    come di moda settant’anni fa!
    Ecco la Morte e la Felicità!
    L’una m’incalza quando l’altra appare;
    quella m’esilia in terra d’oltremare,
    questa promette il bene che sarà....


    Nel mestissimo giorno degli addii
    mi piacque rivedere la tua villa.
    3La morte dell’estate era tranquilla
    in quel mattino chiaro che salii
    tra i vigneti già spogli, tra i pendii
    6già trapunti di bei colchici lilla.

    Forse vedendo il bel fiore malvagio
    che i fiori uccide e semina le brume,
    9le rondini addestravano le piume
    al primo volo, timido, randagio;
    e a me randagio parve buon presagio
    accompagnarmi loro nel costume.

    «Vïaggio con le rondini stamane....»
    «Dove andrà?» - «Dove andrò! Non so.... Vïaggio,
    vïaggio per fuggire altro vïaggio....
    Oltre Marocco, ad isolette strane,
    ricche in essenze, in datteri, in banane,
    perdute nell’Atlantico selvaggio....

    Signorina, s’io torni d’oltremare,
    non sarà d’altri già? Sono sicuro
    di ritrovarla ancora? Questo puro
    amore nostro salirà l’altare?»
    E vidi la tua bocca sillabare
    a poco a poco le sillabe: giuro.

    Giurasti e disegnasti una ghirlanda
    sul muro, di viole e di saette,
    coi nomi e con la data memoranda
    trenta settembre novecentosette....
    Io non sorrisi. L’animo godette
    quel romantico gesto d’educanda.

    Le rondini garrivano assordanti,
    garrivano garrivano parole
    d’addio, guizzando ratte come spole,
    incitando le piccole migranti....
    Tu seguivi gli stormi lontananti
    ad uno ad uno per le vie del sole....

    «Un altro stormo s’alza!...» - «Ecco s’avvia!»
    «Sono partite....» - «E non le salutò!...»
    «Lei devo salutare, quelle no:
    quelle terranno la mia stessa via:
    in un palmeto della Barberia
    tra pochi giorni le ritroverò....»

    Giunse il distacco, amaro senza fine,
    e fu il distacco d’altri tempi, quando
    le amate in bande lisce e in crinoline,
    protese da un giardino venerando,
    singhiozzavano forte, salutando
    diligenze che andavano al confine....

    M’apparisti così, come in un cantico
    del Prati, lacrimante l’abbandono
    per l’isole perdute nell’Atlantico;
    ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
    sentimentale giovine romantico....

    Quello che fingo d’essere e non sono


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:20
     
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    I PASTORI

    Gabriele D'Annunzio




    Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
    Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
    lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
    scendono all'Adriatico selvaggio
    che verde è come i pascoli dei monti.

    Han bevuto profondamente ai fonti
    alpestri, che sapor d'acqua natia
    rimanga ne' cuori esuli a conforto,
    che lungo illuda la lor sete in via.
    Rinnovato hanno verga d'avellano.

    E vanno pel tratturo antico al piano,
    quasi per un erbal fiume silente,
    su le vestigia degli antichi padri.
    O voce di colui che primamente
    conosce il tremolar della marina!

    Ora lungh'esso il litoral cammina
    La greggia. Senza mutamento è l'aria.
    Il sole imbionda sì la viva lana
    che quasi dalla sabbia non divaria.
    Isciacquio, calpestio, dolci romori.

    Ah perché non son io cò miei pastori?


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:22
     
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    ALLE CINQUE DELLA SERA

    Federico Garcia Lorca.






    Alle cinque della sera.
    Eran le cinque in punto della sera.
    Un bambino portò il lenzuolo bianco
    alle cinque della sera.
    Una sporta di calce già pronta
    alle cinque della sera.
    Il resto era morte e solo morte
    alle cinque della sera.

    Il vento portò via i cotoni
    alle cinque della sera.
    E l'ossido seminò cristallo e nichel
    alle cinque della sera.
    Già combatton la colomba e il leopardo
    alle cinque della sera.
    E una coscia con un corno desolato
    alle cinque della sera.

    Cominciarono i suoni di bordone
    alle cinque della sera.
    Le campane d'arsenico e il fumo
    alle cinque della sera.
    Negli angoli gruppi di silenzio
    alle cinque della sera.
    Solo il toro ha il cuore in alto!
    alle cinque della sera.

    Quando venne il sudore di neve
    alle cinque della sera,
    quando l'arena si coperse di iodio
    alle cinque della sera,
    la morte pose le uova nella ferita
    alle cinque della sera.
    Alle cinque della sera.
    Alle cinque in punto della sera.

    Una bara con ruote è il letto
    alle cinque della sera.
    Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
    alle cinque della sera.
    Il toro già mugghiava dalla fronte
    alle cinque della sera.
    La stanza s'iridava d'agonia
    alle cinque della sera.

    Da lontano già viene la cancrena
    alle cinque della sera.
    Tromba di giglio per i verdi inguini
    alle cinque della sera.
    Le ferite bruciavan come soli
    alle cinque della sera.
    E la folla rompeva le finestre
    alle cinque della sera.

    Alle cinque della sera.
    Ah, che terribili cinque della sera!
    Eran le cinque a tutti gli orologi!
    Eran le cinque in ombra della sera!


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:25
     
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    I gatti lo sapranno


    Cesare Pavese






    Ancora cadrà la pioggia

    sui tuoi dolci selciati,

    una pioggia leggera

    come un alito o un passo.



    Ancora la brezza e l’alba

    fioriranno leggere

    come sotto il tuo passo,

    quando tu rientrerai.



    Tra fiori e davanzali

    i gatti lo sapranno.



    Ci saranno altri giorni,

    ci saranno altre voci.

    Sorriderai da sola.

    I gatti lo sapranno.





    Udrai parole antiche,

    parole stanche e vane

    come i costumi smessi

    delle feste di ieri.





    Farai gesti anche tu.

    Risponderai parole,

    viso di primavera,

    farai gesti anche tu.





    I gatti lo sapranno,

    viso di primavera;

    e la pioggia leggera,

    l’alba color giacinto,

    che dilaniano il cuore

    di chi più non ti spera,

    sono il triste sorriso

    che sorridi da sola.



    Ci saranno altri giorni,

    altre voci e risvegli.

    Soffriremo nell’alba,

    viso di primavera.


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:29
     
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    Lo steddazzu

    Cesare Pavese





    L'uomo solo si leva che il mare e ancor buio
    e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
    sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
    e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
    può accadere. Perfino la pipa tra i denti
    pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
    L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
    e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
    tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

    Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
    in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
    che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
    una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
    Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
    a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
    vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
    dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
    è spietata, per chi non aspetta più nulla.

    Val la pena che il sole si levi dal mare
    e la lunga giornata cominci? Domani
    tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
    e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
    L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
    Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
    l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:31
     
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    “Questo amore”






    Questo amore
    Così violento
    Così fragile
    Così tenero
    Così disperato
    Questo amore
    Bello come il giorno
    Cattivo come il tempo

    Quando il tempo è cattivo
    Questo amore così vero
    Questo amore così bello
    Così felice
    Così gioioso
    Così irrisorio
    Tremante di paura come un bambino quando è buio
    Così sicuro di sé
    Come un uomo tranquillo nel cuore della notte

    Questo amore che faceva paura
    Agli altri
    E li faceva parlare e impallidire
    Questo amore tenuto d’occhio
    Perché noi lo tenevamo d’occhio
    Braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
    Perché noi l’abbiamo braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
    Questo amore tutt’intero
    Così vivo ancora
    E baciato dal sole
    È il tuo amore
    È il mio amore
    È quel che è stato

    Questa cosa sempre nuova
    Che non è mai cambiata
    Vera come una pianta
    Tremante come un uccello
    Calda viva come l’estate
    Sia tu che io possiamo
    Andare e tornare possiamo
    Dimenticare
    E poi riaddormentarci
    Svegliarci soffrire invecchiare
    Addormentarci ancora
    Sognarci della morte
    Ringiovanire
    E svegli sorridere ridere

    Il nostro amore non si muove
    Testardo come un mulo
    Vivo come il desiderio
    Crudele come la memoria
    Stupido come i rimpianti
    Tenero come il ricordo
    Freddo come il marmo
    Bello come il giorno
    Fragile come un bambino
    Ci guarda sorridendo
    Ci parla senza dire
    E io l’ascolto tremando
    E grido
    Grido per te
    Grido per me
    Ti supplico
    Per te per me per tutti quelli che si amano
    E che si sono amati

    Oh sì gli grido
    Per te per me per tutti gli altri
    Che non conosco
    Resta dove sei
    Non andartene via
    Resta dov’eri un tempo
    Resta dove sei
    Non muoverti
    Non te ne andare
    Noi che siamo amati noi t’abbiamo
    Dimenticato
    Tu non dimenticarci
    Non avevamo che te sulla terra
    Non lasciarci morire assiderati
    Lontano sempre più lontano
    Dove tu vuoi
    Dacci un segno di vita
    Più tardi, più tardi, di notte
    Nella foresta del ricordo
    Sorgi improvviso
    Tendici la mano
    Portaci in salvo.



    Jacques Prevert,

    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:33
     
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    RICORDATI BARBARA

    Jacques Prèvert






    Ricordati Barbara

    Pioveva senza sosta quel giorno su Brest

    E tu camminavi sorridente

    Serena rapita grondante

    Sotto la pioggia

    Ricordati Barbara

    Come pioveva su Brest

    E io ti ho incontrata a rue de Siam

    Tu sorridevi

    Ed anch'io sorridevo

    Ricordati Barbara

    Tu che io non conoscevo

    Tu che non mi conoscevi

    Ricordati Ricordati quel giorno ad ogni costo

    Non lo dimenticare

    Un uomo s'era rifugiato sotto un portico

    E ha gridato il tuo nome

    Barbara

    E sei corsa verso di lui sotto la pioggia

    Grondante rapita rasserenata

    E ti sei gettata tra le sue braccia

    Ricordati questo Barbara

    E non mi rimproverare di darti del tu

    lo dico tu a tutti quelli che amo

    Anche se una sola volta li ho veduti

    Io dico tu a tutti quelli che si amano

    Anche se non li conosco

    Ricordati Barbara

    Non dimenticare

    Questa pioggia buona e felice

    sul tuo volto felice

    Su questa città felice

    Questa pioggia sul mare

    Sull'arsenale

    Sul battello d'Ouessant

    Oh Barbara

    Che coglionata la guerra

    Che ne è di te ora

    Sotto questa pioggia di ferro

    Di fuoco d'acciaio di sangue

    E l'uomo che ti stringeva tra le braccia

    Amorosamente

    è morto disperso o è ancora vivo

    Oh Barbara

    Piove senza sosta su Brest

    Come pioveva allora

    Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato

    E' una pioggia di lutti terribili e desolata

    Non c'è nemmeno più la tempesta

    Di ferro d'acciaio e di sangue

    Soltanto di nuvole

    Che crepano come cani

    Come i cani che spariscono

    Sul filo dell'acqua a Brest

    E vanno ad imputridire lontano

    Lontano molto lontano da Brest

    Dove non vi è piú nulla.


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:36
     
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    AUSCHWITZ


    Salvatore Quasimodo






    Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
    amore, lungo la pianura nordica,
    in un campo di morte: fredda, funebre,
    la pioggia sulla ruggine dei pali
    e i grovigli di ferro dei recinti:
    e non albero o uccelli nell’aria grigia
    o su dal nostro pensiero, ma inerzia
    e dolore che la memoria lascia
    al suo silenzio senza ironia o ira.

    Tu non vuoi elegie, idilli: solo
    ragioni della nostra sorte, qui,
    tu, tenera ai contrasti della mente,
    incerta a una presenza
    chiara della vita. E la vita è qui,
    in ogni no che pare una certezza:
    qui udremo piangere l’angelo il mostro
    le nostre ore future
    battere l’al di là, che è qui, in eterno
    e in movimento, non in un’immagine
    di sogni, di possibile pietà.
    E qui le metamorfosi, qui i miti.
    Senza nome di simboli o d’un dio,
    sono cronaca, luoghi della terra,
    sono Auschwitz, amore…

    Da quell’inferno aperto da una scritta
    bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
    uscì continuo il fumo
    di migliaia di donne spinte fuori
    all’alba dai canili contro il muro
    del tiro a segno o soffocate urlando
    misericordia all’acqua con la bocca
    di scheletro sotto le docce a gas…

    Restano lunghe trecce chiuse in urne
    di vetro ancora strette da amuleti
    e ombre infinite di piccole scarpe
    e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
    d’un tempo di saggezza, di sapienza
    dell’uomo che si fa misura d’armi,
    sono i miti, le nostre metamorfosi.
    Sulle distese dove amore e pianto
    marcirono e pietà, sotto la pioggia,
    laggiù, batteva un no dentro di noi,
    un no alla morte, morta ad Auschwitz,
    per non ripetere, da quella buca
    di cenere, la morte.


    Edited by Biker. - 24/10/2021, 16:37
     
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