I GRANDI POETI CLASSICI...

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    Fiume-Serchio


    I FIUMI


    di DUngaretti


    Mi tengo a quest'albero mutilato
    Abbandonato in questa dolina
    Che ha il languore
    Di un circo
    Prima o dopo lo spettacolo
    E guardo
    Il passaggio quieto
    Delle nuvole sulla luna

    Stamani mi sono disteso
    In un’urna d’acqua
    E come una reliquia
    Ho riposato

    L’Isonzo scorrendo
    Mi levigava
    Come un suo sasso
    Ho tirato su
    Le mie quattro ossa
    E me ne sono andato
    Come un acrobata
    Sull’acqua

    Mi sono accoccolato
    Vicino ai miei panni
    Sudici di guerra
    E come un beduino
    Mi sono chinato a ricevere
    Il sole

    Questo è l’Isonzo
    E qui meglio
    Mi sono riconosciuto
    Una docile fibra
    Dell’universo

    Il mio supplizio
    È quando
    Non mi credo
    In armonia
    Ma quelle occulteMani
    Che m’intridono
    Mi regalano
    La raraFelicità

    Ho ripassato
    Le epoche
    Della mia vita

    Questi sono
    I miei fiumi

    Questo è il Serchio
    Al quale hanno attinto
    Duemil’anni forse
    Di gente mia campagnola
    E mio padre e mia madre.

    Questo è il Nilo
    Che mi ha visto
    Nascere e crescere
    E ardere d’inconsapevolezza
    Nelle distese pianure

    Questa è la Senna
    E in quel suo torbido
    Mi sono rimescolato
    E mi sono conosciuto

    Questi sono i miei fiumi
    Contati nell’Isonzo

    Questa è la mia nostalgia
    Che in ognuno
    Mi traspare
    Ora ch’è notte
    Che la mia vita mi pare
    Una corollaDi tenebre.
     
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    Io era giunto dove giunge chi sogna





    “Quel crocitare mi destò. Di fronte
    m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa
    sorta dal mare! E nell’azzurro un monte:
    l’Etna nevosa.
    Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove,
    pulsa una cetra od empie una zampogna,
    e canta e passa… Io ero giunto dove
    giunge chi sogna;
    chi sogna, ed apre bianche vele ai venti
    nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora
    l’ospite lui ravvisi, dopo venti
    secoli, ancora.”

    Giovanni Pascoli, L’isola dei poeti.









    La dedico a una terra così bella e offesa,
    venduta come l'oro delle pietre fatte storia
    dei suoi templi, da stranieri ingordi
    bestemmiata dal sangue di uomini gretti
    senza amore, aridi come lava
    senza santi da pregare o maledire

    Terra amata da mani sapienti
    che ricostruiscono e proteggono
    e dalla pietra fanno sorgere
    alberi e case, come dal monte
    sorgè acqua limpida come occhi
    brillanti in volti di terracotta...


     
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    I mari del sud

    Cesare Pavese




    ICamminiamo una sera sul fianco di un colle,
    in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
    mio cugino è un gigante vestito di bianco,
    che si muove pacato, abbronzato nel volto,
    taciturno. Tacere è la nostra virtù.
    Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
    - un grand'uomo tra idioti o un povero folle -
    per insegnare ai suoi tanto silenzio.
    Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
    se salivo con lui: dalla vetta si scorge
    nelle notti serene il riflesso del faro
    lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino..."
    mi ha detto " ...ma hai ragione. La vita va vissuta
    lontano dal paese: si profitta e si gode,
    e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
    si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
    Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
    ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
    di questo stesso colle, è scabro tanto
    che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
    non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
    con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
    usare ai contadini un poco stanchi.

    Vent'anni è stato in giro per il mondo.
    Se n'andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne,
    e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
    da donne, come in favola, talvolta;
    ma gli uomini, più gravi, lo scordarono.
    Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
    con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
    e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
    ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
    che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
    circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
    nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
    il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
    Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
    che, se non era morto, morirebbe.
    Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

    Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
    quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
    che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
    e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
    spaccandone i bei rami e ho rotto la testa
    a un rivale e sono stato picchiato,
    quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
    altri squassi del sangue dinanzi a rivali
    più elusivi: i pensieri ed i sogni.
    La città mi ha insegnato infinite paure:
    una folla, una strada mi han fatto tremare,
    un pensiero talvolta, spiato su un viso.
    Sento ancora negli occhi la luce beffarda
    dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

    Mio cugino è tornato, finita la guerra,
    gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
    I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
    se li è mangiati tutti e torna in giro.
    I disperati muoiono così".
    Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
    nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
    con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
    e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
    Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
    e lui girò tutte le Langhe fumando.
    S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
    esile e bionda come le straniere
    che avevo certo un giorno incontrato nel mondo.
    Ma uscì ancora da solo. Vestito di bianco,
    con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
    al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
    contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
    quando fallì il disegno, che il suo piano
    era stato di togliere tutte le bestie alla valle
    e obbligare la gente a comprargli i motori.
    "Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
    sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
    che qui buoi e persone son tutta una razza".

    Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
    sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
    Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
    scrivo sul manifesto: - Santo Stefano
    è sempre stato il primo nelle feste
    della valle di Belbo - e che la dicano
    quei di Canelli". Poi riprende l'erta.
    Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
    qualche lume in distanza: cascine, automobili
    che si sentono appena; e io penso alla forza
    che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
    alle terre lontane, al silenzio che dura.
    Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
    Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro
    e pensa ai suoi motori.
    Solo un sogno
    gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
    da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,
    e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
    ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
    e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
    Me le accenna talvolte.

    Ma quando gli dico
    ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
    sulle isole più belle della terra,
    al ricordo sorride e risponde che il sole
    si levava che il giorno era vecchio per loro.
     
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    ….Ascoltarono. Lieve si levava il canto del fiume dalle molte voci.

    Siddharta guardò nell'acqua e nella acqua gli apparvero immagini: apparve suo padre, solo, afflitto per il figliolo; egli stesso apparve, solo, anch'egli avvinto dai legami della nostalgia per il figlio lontano; apparve suo figlio, solo anche lui, avido ragazzo sfrenata sulla strada ardente dei suoi giovani desideri, ognuno teso alla sua meta, ognuno in preda alla sofferenza. Il fiume cantava con voce dolorosa, con desiderio, e con desiderio scorreva verso la sua meta,

    la sua voce suonava come un lamento.«Odi?» chiese lo sguardo silenzioso di Vasudeva.

    Siddharta annuì.«Ascolta meglio!» sussurrò Vasudeva.Siddharta si sforzò d'ascoltar meglio.

    L'immagine del padre, la sua propria immagine, l'immagine del figlio si mescolarono l'una nell'altra, anche l'immagine di Kamala apparve e sparì, e così l'immagine di Govinda, e altre ancora, e tutte si mescolarono insieme, tutte si tramutarono in fiume, tutte fluirono come un fiume verso la meta, bramose, avide, sofferenti, e la voce del fiume suonava piena di nostalgia, piena di ardente dolore, d'insaziabile desiderio.

    Il fiume tendeva alla meta, Siddharta lo vedeva affrettarsi, quel fiume che era fatto di lui e dei suoi e di tutti gli uomini ch'egli avesse mai visto, tutte le onde, tutta quell'acqua si affrettavano, soffrendo, verso le loro mete. Molte mete: la cascata, il lago, le rapide, il mare, e tutte le mete venivano raggiunte, e a ogni meta una nuova ne seguiva, e dall'acqua si generava vapore e saliva in cielo, diventava pioggia e precipitava giù dal cielo, diventava fonte, ruscello, fiume, e di nuovo riprendeva il suo cammino, di nuovo cominciava a fluire.

    Ma l'avida voce era mutata. Ancora suonava piena d'ansia e d'affanno, ma altre voci si univano a lei, voci di gioia e di dolore, voci buone e cattive, sorridenti e tristi, cento voci, mille voci.

    Siddharta ascoltava. Era ora tutt'orecchi, interamente immerso in ascolto, totalmente vuoto, totalmente disposto ad assorbire; sentiva che ora aveva appreso tutta l'arte dell'ascoltare.

    Spesso aveva già ascoltato tutto ciò, queste mille voci nel fiume; ma ora tutto ciò aveva un suono nuovo.

    Ecco che più non riusciva a distinguere le molte voci, le allegre da quelle in pianto, le infantili da quelle virili, tutte si mescolavano insieme, lamenti di desiderio e riso del saggio, grida di collera e gemiti di morenti, tutto era una cosa sola, tutto era mescolato e intrecciato, in mille modi contesto.
    E tutto insieme, tutte le voci, tutte le mete, tutti i desideri, tutti i dolori, tutta la gioia, tutto il bene e il male, tutto insieme era il mondo.

    Tutto insieme era il fiume del divenire, era la musica della vita.

    E se Siddharta ascoltava attentamente questo fiume, questo canto dalle mille voci, se non porgeva ascolto né al dolore né al riso, se non legava la propria anima a una di quelle voci e se non s'impersonava in essa col proprio Io, ma tutte le udiva, percepiva il Tutto, l'Unità, e allora il grande canto delle mille voci consisteva d'un'unica parola, e questa parola era Om: la perfezione.

    «Senti?» chiese di nuovo lo sguardo di Vasudeva.
    Chiaro splendeva il sorriso di Vasudeva, sopra tutte le rughe del suo vecchio volto aleggiava luminoso così come l'Om si librava su tutte le voci del fiume.
    Chiaro splendeva il suo sorriso quando guardava l'amico, e chiaro splendeva ora lo stesso sorriso anche sul volto di Siddharta. La sua ferita fioriva, il suo dolore spandeva raggi, mentre il suo Io confluiva nell'Unità.

    In quell'ora Siddharta cessò di lottare contro il destino, in quell'ora cessò di soffrire.
    Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all'Unità.

    ("Siddharta" di Hermann Hesse)
     
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    Gabriele-DAnnunzio-in-partenza-per-il-volo-su-Cattaro

    Il volo su Vienna


    Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani.

    Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate.

    Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.

    Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.

    Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali,

    al vostro cieco testardo crudele governo

    che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d'odio e d'illusioni.

    Viennesi! Voi avete fama di essere intelligenti.

    Ma perché vi siete messi l'uniforme prussiana?

    Ormai, lo vedete, tutto il mondo s'è volto contro di voi.

    Volete continuare la guerra?

    Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate?

    La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani?

    La loro vittoria decisiva è come il pane dell'Ucraina:

    si muore aspettandola.




    Gabriele D'Annunzio
     
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    ER GATTO AVVOCATO
    Trilussa (Carlo Alberto Salustri)

    La cosa annò così. La Tartaruga,
    mentre cercava un posto più sicuro
    pe' magnasse una foja de lattuga,
    j'amancò un piede e cascò giù dar muro:
    e, quer ch'è peggio, ne la scivolata
    rimase co' la casa arivortata.

    Allora chiese ajuto a la Cagnola;
    dice: — Se me rimetti in posizzione
    t'arigalo, in compenso, una braciola
    che ciò riposta a casa der padrone.
    Accetti? — Accetto. — E quella, in bona fede,
    co' du' zampate l'arimise in piede.

    Poi chiese: — E la braciola? — Dice: — Quale?
    — Ah! — dice — mó te butti a Santa Nega!
    T'ammascheri da tonta! E naturale!
    Ma c'è bona giustizzia che te frega!
    Mó chiamo er Gatto, j'aricconto tutto,
    e te levo la sete cór preciutto! —

    Er Gatto, che faceva l'avvocato,
    intese er fatto e j'arispose: — Penso
    che è un tasto un pochettino delicato
    perché c'è la questione der compenso:
    e in certi casi, come dice Orazzio,
    promissio boni viri est obbligazzio.

    Ma prima ch'io decida è necessario
    che la bestia medesima sia messa
    co' la casa vortata a l'incontrario
    finché nun riconferma la promessa,
    pe' stabbili s'è un metodo ch'addopra
    solo quanno se trova sottosopra. —

    Così fu fatto. Er Micio disse: — Spero
    che la braciola veramente esista... —
    La Tartaruga je rispose: — È vero!
    Sta accosto a la gratticola... L'ho vista.
    — Va bene, — disse er Gatto — nu' ne dubbito:
    mó faccio un soprallogo e torno subbito. —

    E ritornò, defatti, verso sera.
    — Avemo vinto! — disse a la criente.
    Dice: — Da vero? E la braciola? — C'era...
    ma m'è rimasto l'osso solamente
    perché la carne l'ho finita adesso
    pe' sostené le spese der processo.
     
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    Canto alle rondini



    Questa verde serata ancora nuova

    e la luna che sfiora calma il giorno

    oltre la luce aperto con le rondini

    daranno pace e fiume alla campagna

    ed agli esuli morti un altro amore.

    Ci rimpiange monotono quel grido

    brullo che spinge già l’inverno, è solo

    l’uomo che porta la città lontano.



    E nei treni che spuntano, e nell’ora

    fonda che annotta, sperano le donne

    ai freddi affissi d’un teatro, cuore

    logoro nome che patimmo un giorno.




    Alfonso Gatto
     
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    I GATTI LO SAPRANNO



    Ancora cadrà la pioggia

    sui tuoi dolci selciati,

    una pioggia leggera

    come un alito o un passo.

    Ancora la brezza e l'alba

    fioriranno leggere

    come sotto il tuo passo,

    quando tu rientrerai.

    Tra fiori e davanzali

    i gatti lo sapranno.

    Ci saranno altri giorni,

    ci saranno altre voci.

    Sorriderai da sola.

    I gatti lo sapranno.

    Udrai parole antiche,

    parole stanche e vane

    come i costumi smessi

    delle feste di ieri.

    Farai gesti anche tu.

    Risponderai parole −

    viso di primavera,

    farai gesti anche tu.

    I gatti lo sapranno,

    viso di primavera;

    e la pioggia leggera,

    l'alba color giacinto,

    che dilaniano il cuore

    di chi piú non ti spera,

    sono il triste sorriso

    che sorridi da sola.

    Ci saranno altri giorni,

    altre voci e risvegli.

    Soffriremo nell'alba,

    viso di primavera.



    Cesare Pavese
     
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    I limoni

    Eugenio Montale



    Ascoltami, i poeti laureati

    si muovono soltanto fra le piante

    dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

    lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

    fossi dove in pozzanghere

    mezzo seccate agguantano i ragazzi

    qualche sparuta anguilla:

    le viuzze che seguono i ciglioni,

    discendono tra i ciuffi delle canne

    e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.



    Meglio se le gazzarre degli uccelli

    si spengono inghiottite dall’azzurro:

    più chiaro si ascolta il susurro

    dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,

    e i sensi di quest’odore

    che non sa staccarsi da terra

    e piove in petto una dolcezza inquieta.

    Qui delle divertite passioni

    per miracolo tace la guerra,

    qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

    ed è l’odore dei limoni.



    Vedi, in questi silenzi in cui le cose

    s’abbandonano e sembrano vicine

    a tradire il loro ultimo segreto,

    talora ci si aspetta

    di scoprire uno sbaglio di Natura,

    il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

    il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

    nel mezzo di una verità.

    Lo sguardo fruga d’intorno,

    la mente indaga accorda disunisce

    nel profumo che dilaga

    quando il giorno più languisce.

    Sono i silenzi in cui si vede

    in ogni ombra umana che si allontana

    qualche disturbata Divinità.



    Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo

    nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra

    soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

    La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta

    il tedio dell’inverno sulle case,

    la luce si fa avara – amara l’anima.

    Quando un giorno da un malchiuso portone

    tra gli alberi di una corte

    ci si mostrano i gialli dei limoni;

    e il gelo dei cuore si sfa,

    e in petto ci scrosciano

    le loro canzoni

    le trombe d’oro della solarità.
     
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    A un amico....

    Cesare Pavese




    Che diremo stanotte all'amico che dorme?
    La parola più tenue ci sale alle labbra
    dalla pena più atroce.
    Guarderemo l'amico,
    le sue inutili labbra che non dicono nulla,
    parleremo sommesso.
    La notte avrà il volto
    dell'antico dolore che riemerge ogni sera
    impassibile e vivo.
    Il remoto silenzio soffrirà come un'anima, muto, nel buio.
    Parleremo alla notte che fiata sommessa.
    Udiremo gli istanti stillare nel buio
    al di là delle cose, nell'ansia dell'alba,
    che verrà d'improvviso incidendo le cose
    contro il morto silenzio.
    L'inutile luce svelerà il volto assorto del giorno.
    Gli istanti taceranno.
    E le cose parleranno sommesso.
     
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    «Un paese ci vuole, non

    fosse che per il gusto di

    andarsene via. Un paese vuol

    dire non essere soli, sapere

    che nella gente, nelle


    piante, nella terra c’è

    qualcosa di tuo, che anche

    quando non ci sei resta ad

    aspettarti».


    Cesare Pavese, La luna e i falò
     
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    Ascoltami, i poeti laureati

    si muovono soltanto fra le piante

    dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

    lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

    fossi dove in pozzanghere

    mezzo seccate agguantanoi ragazzi

    qualche sparuta anguilla:

    le viuzze che seguono i ciglioni,

    discendono tra i ciuffi delle canne

    e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.



    Meglio se le gazzarre degli uccelli

    si spengono inghiottite dall'azzurro:

    più chiaro si ascolta il susurro

    dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,

    e i sensi di quest'odore

    che non sa staccarsi da terra

    e piove in petto una dolcezza inquieta.

    Qui delle divertite passioni

    per miracolo tace la guerra,

    qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

    ed è l'odore dei limoni.



    Vedi, in questi silenzi in cui le cose

    s'abbandonano e sembrano vicine

    a tradire il loro ultimo segreto,

    talora ci si aspetta

    di scoprire uno sbaglio di Natura,

    il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,

    il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

    nel mezzo di una verità.

    Lo sguardo fruga d'intorno,

    la mente indaga accorda disunisce

    nel profumo che dilaga

    quando il giorno piú languisce.

    Sono i silenzi in cui si vede

    in ogni ombra umana che si allontana

    qualche disturbata Divinità.



    Eugenio Montale
     
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    I Ritorni



    Piazza Navona, a notte, sui sedili

    stavo supino in cerca della quiete,

    e gli occhi con rette e volute di spirali

    univano le stelle,

    le stesse che seguivo da bambino

    disteso sui ciotoli del Platani

    sillabando al buio le preghiere.

    Sotto il capo incrociavo le mie mani

    e ricordavo i ritorni:

    odore di frutta che secca sui graticci,

    di violaciocca, di zenzero, di spigo;

    quando pensavo di leggerti, ma piano,

    (io e te, mamma, in un angolo in penombra)

    la parabola del prodigo,

    che mi seguiva sempre nei silenzi

    come un ritmo che s'apra ad ogni passo

    senza volerlo.



    Ma ai morti non è dato di tornare,

    e non c'è tempo nemmeno per la madre

    quando chiama la strada,

    e ripartivo, chiuso nella notte

    come uno che tema all'alba di restare .



    E la strada mi dava le canzoni,

    che sanno di grano che gonfia nelle spighe,

    del fiore che imbianca gli uliveti

    tra l'azzurro del lino e le giunchiglie ;

    risonanze nei vortici di polvere,

    cantilene d'uomini e cigolio di traini

    con le lanterne che oscillano sparute

    ed hanno appena il chiaro di una lucciola.



    Salvatore Quasimodo
     
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    Ti meriti un amore

    “Ti meriti un amore che ti voglia

    spettinata,

    per tutte le ragioni che ti fanno

    alzare in fretta,

    per i demoni che non ti

    lasciano dormire.

    Ti meriti un amore che ti faccia

    sentire sicura,

    in grado di mangiarsi il mondo

    quando cammina accanto a te,

    che senta che i tuoi abbracci sono

    perfetti per la sua pelle.

    Ti meriti un amore che voglia ballare

    con te,

    che trovi il paradiso ogni volta che

    guarda nei tuoi occhi,

    che non si annoi mai di leggere le

    tue espressioni.

    Ti meriti un amore che ti ascolti

    quando canti,

    che ti appoggi quando fai la ridicola,

    che rispetti il tuo essere libera,

    che ti accompagni nel tuo volo,

    che non abbia paura di cadere.

    Ti meriti un amore che ti spazzi via le

    bugie

    che ti porti il sogno,

    il caffè

    e la poesia”.



    Frida Kahlo
     
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    Primavera


    Una montagna di luce gialla,

    una torre fiorita

    spuntò sulla strada e tutto

    si riempì di profumo.

    Era una mimosa.



    Pablo Neruda
     
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