IL GIORNO DELLA MEMORIA: IL RACCONTO DI IDA MARCHERIA, UN CIOCCOLATINO PER RICORDARE [FOTO STORICHE]

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Super!

    Group
    ADMIN
    Posts
    99,420

    Status
    Anonymous

    Il Giorno della Memoria - Il racconto di Ida Marcheria, sopravvissuta alla Shoah, Un cioccolatino per ricordare




    gmgUofr

    Prima dell'arresto

    Fotografia archivio personale di Ida Marcheria

    La nostra fu un’infanzia piuttosto felice, non avevamo grossi problemi e potevamo vivere tranquillamente. Il nostro era il tempo dello studio, dei giochi e i nostri genitori, con molta attenzione e tatto, lasciavano che ci raggiungesse solo ciò che non poteva arrecarci turbamenti. Anche in questo eravamo bambini come tutti gli altri.

    Trieste, una gran bella città, era, come si direbbe oggi, multiculturale, multietnica: c'erano ebrei, anche originari della Grecia - molti come il nonno provenivano da Corfù - austriaci, ungheresi, sloveni, italiani ovviamente, insomma Trieste era una gradevole Babele di lingue, dialetti, di gusti, di profumi, di sapori. Una città di confine e di conseguenza di ricchezze culturali composite e magnifiche. Purtroppo, anche in un tessuto sociale così ricco e articolato, non mancavano i veleni per gli scontri, a volte molto violenti, fomentati, per lo più, dai fascisti nei confronti degli slavi. Ma noi, piccoli di casa, anche da queste violenze, eravamo protetti.

    (Nella foto: da sinistra, Hanna Schwartz, Ida e Stellina Marcheria, Trieste, ottobre 1943, pochi giorni prima dell'arresto).




    VnmRLFW

    Le leggi razziali

    Foto archivio personale di Ida Marcheria

    Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni... Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c'era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l'Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.

    (Nella foto, Ida nel 1943)



    FdiKFp8

    Le leggi razziali

    Foto archivio personale di Ida Marcheria

    Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni... Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c'era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l'Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.

    (Nella foto, Ida nel 1943)



    upXJne1

    Aushwitz, la Judendrampe

    Fotografia per gentile concessione dell'archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

    La Judenrampe! Il caos, il terrore, l'anticamera dell'inferno. Credo che non ci saranno mai parole sufficienti e tali da poterci fare capire, e da parte mia da rendere benché minimamente comprensibile, ciò che accadeva su quel binario. Si potrà mai capire cosa e con quale violenza scuotesse l'animo dei deportati al loro arrivo sulla Rampa degli Ebrei? No, non bastano tutte le parole che conosciamo, tutte le parole del mondo. Scese, anzi meglio, saltate dal carro bestiame, ci trovammo in un girone allucinante di suoni, di grida, di urla. In una lingua dura, feroce, incomprensibile. I tedeschi, le SS urlavano ordini che nessuno capiva, su tutti grandinavano botte e bastonate, i cani, tanti cani abbaiavano, latravano eccitati e infuriati. Digrignando i denti, cercando di aggredire noi poveretti in preda al panico. Un po' le SS li trattenevano, un po' li aizzavano. Tutti, e noi tra loro, cercavamo con occhi smarriti di trovare i nostri cari, il padre, la madre, i fratelli.

    Sempre tra urli e bastonate ci fecero lasciare sulla rampa i nostri fagotti, le nostre valigie. Guai cercare di tenere con sé qualcosa, anche la più piccola cosa. A botte e spintoni, senza alcun riguardo per niente e per nessuno, ci fecero disporre in due file. Ci prepararono per la selezione. In una colonna gli uomini, nell'altra le donne con i bambini. Stellina e io eravamo con la mamma. Lentamente le due file avanzavano verso un ufficiale tedesco, una SS glaciale nella sua indifferenza che, a volte quasi con aria annoiata, indicava con un frustino a ciascuno se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Il suo sguardo non pareva nemmeno vederci. Era Mengele, il medico selezionatore, l'angelo della morte.

    (Nella foto, Auschwitz-Birkenau, selezione alla Judenrampe)



    SSYdu9T

    La selezione

    Fotografia per gentile concessione dell'archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

    Mentre la selezione era in corso ci si avvicinò un uomo, neanche poi così male in arnese, vestito con uno strano abito a righe grigie e blu. Ci guardò solo per un attimo, facendo scivolare lo sguardo frettolosamente, poi guardando altrove; fingendo attenzione per altro da noi, con molta circospezione, parlando italiano mi chiese quanti anni avessi. "Quattordici" risposi. "No, tu ne hai sedici". Pensai fosse matto. D'altro canto tutto ciò che vedevo intorno a me non poteva che farmi credere di essere arrivata nel mondo dei matti, nel mondo della follia. Ma come, ho quattordici anni e questo strano essere pretende di sapere meglio di me la mia età! Se ho quattordici anni perché mai devo dire sedici? Ma che ne sa, se nemmeno mi conosce. Poi fece la stessa domanda a Stellina. "Tredici anni da pochi giorni" disse mia sorella. "No, tu ne hai quindici, capito! Ne hai quindici". Allontanandosi ancor più circospetto, come se temesse che le SS avessero potuto vederlo nel rivolgerci la parola, ci ripeté ancora una volta: "Tu ne hai sedici e tu quindici. Ricordatevelo! ". Ma prima di rivolgersi ad altri prigionieri e con ben poco garbo ci spintonò verso la nostra fila. Toccò a noi arrivare davanti alle SS. Senza una parola, con un gesto secco venimmo indirizzate nella fila meno numerosa.

    (Nella foto, Birkenau, donne e ragazzi già destinati alle camere a gas)




    dPqazLK

    Nostra madre aveva capito

    Fotografia per gentile concessione dell'archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

    Nostra madre andò nell'altra. Ma questo non ci interessò, non era quello che in quel momento per noi era importante. Da una parte o dall'altra per noi nulla significava. Avevamo già perso di vista mio padre e i nostri fratelli Giacomo e Raffaele, anche se erano nella nostra colonna. Cercavamo la mamma. Ci guardammo intorno per individuarla. I nostri occhi, seppur stanchi e sbarrati dal terrore, la cercarono nella fila che s'ingrossava sempre più di donne e bambini. Non la trovammo. Poi la vedemmo su di un camion. Volevamo andare con lei, ma non ci fu possibile. Qualcuno ci disse che l'avremmo ritrovata nel campo. Gli anziani, i meno forti ci avrebbero preceduto. Che tragica bugia! Mamma non piangeva. Lei aveva capito. "Bambine mie" ci disse "cercate di stare sempre insieme". Poi i camion, non pochi e tutti strapieni di donne e bambini ammassati come bestie, si avviarono. Verso dove nessuno di noi sapeva e poteva immaginare. Vedemmo mamma allontanarsi, senza una lacrima. Non l'abbiamo più vista.

    (Nella foto, Birkenau, donna con bambini)





    plOmcVg

    Kanada Kommando

    Fotografia per gentile concessione dell'archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

    Quando arrivammo [al Kanada Kommando], quello che ebbi modo di vedere mi lasciò di stucco. Le baracche erano piene fino al soffitto di vestiti, di valigie, di coperte, di scarpe... di tutto! Da non poter immaginare, incredibile. Era tutta la nostra roba, i beni di tutti i deportati, quelli ancora vivi ma soprattutto di quelli ridotti in fumo. Delle nostre madri, dei fratelli, dei figli. Il frutto di una inimmaginabile, criminale rapina.

    Io sono nata lì, al Kanada ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile. Le SS, i nazisti ci avevano rubato tutto e noi non potevamo nemmeno toccare. Tutto era verboten, proibito, tutto era esclusiva proprietà del Reich. Noi pure, noi per primi. Ci insegnarono il lavoro, ci insegnarono rudemente a scegliere tra quanto continuamente, senza sosta ci arrivava, in grande quantità, ogni giorno, e a dividere il meglio dal peggio. Gli stracci, i Lumpen, da una parte, le cose migliori e utilizzabili da inviare ai buoni cittadini del Reich da un’altra. A noi una copertaccia nera e un paio di ruvidi, scomodi zoccoli, a loro calde coperte, piumini, comode scarpe di pelle, orologi, tappeti... Oro, gioielli, brillanti, beni preziosi, medicine – così necessarie nel campo – soldi dovevano essere consegnati agli ufficiali delle SS che ci controllavano minuto per minuto, dalla mattina alla sera. Se un ufficiale vedeva che una di noi tentava di “organizzare”, di rubare un gioiello, estraeva la rivoltella e, a bruciapelo, uccideva la ladra. Alla fine del turno, prima di tornare in baracca, venivamo perquisite. In fila, tutte nude, con la divisa in mano. Le SS, senza alcun riguardo, erano pronte a esplorare persino il nostro corpo anche nelle parti più intime.

    Ogni giorno toccava a noi selezionare, accoppiare, fare grossi pacchi che, una volta riportati sulla rampa ferroviaria, prendevano strade per noi allora sconosciute. Poi abbiamo saputo che erano quelle non solo per la Germania ma anche per la Svizzera, per il Brasile, per l'Argentina. Anche l'oro dei denti dei nostri morti è finito lì. Noi non potevamo prendere nulla, ma gli ufficiali delle SS si servivano in abbondanza. Per se stessi e per le loro mogli. Quando arrivava un trasporto "ricco", non dai ghetti ma come quelli degli ebrei ungheresi, dovevi vedere come si precipitavano. Come falchi. Anche le ragazze del Kanada rubavano, sfidando la morte, per sé e per le loro compagne del campo.

    (Nella foto, Birkenau, donne addette alla selezione degli oggetti provenienti dai vari trasporti. Sullo sfondo, in alto, è possibile vedere le cime dei camini)



    WQI5q1h

    La camera a gas

    Fotografia per gentile concessione dell'archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

    Anch'io finii davanti all'entrata della camera a gas. Con altre compagne avevo gettato del pane a persone di un trasporto appena arrivato. In attesa del loro ignoto appuntamento con l'inferno delle SS. Le kapò ci avevano scoperte e alcune di noi, forse quelle che già da prima venivano tenute sotto un più attento controllo, furono subito portate con la forza nel cortile del crematorio. Mentre eravamo sul piazzale in attesa che la camera a gas si rendesse disponibile, arrivò con la sua motocicletta una hauserka, una delle guardiane SS, le più cattive e perverse. Erano sempre rabbiose, violente, giravano per il campo in motocicletta e sempre accompagnate da un cane persino più rabbioso di loro. Mi guardò, pensò forse che mi avevano mandato al crematorio perché non più idonea al lavoro. Ma evidentemente il mio aspetto non era tale da giustificare questa decisione. Mi urlò, quindi: "Augenfressen, zu arbeiten", tu stai bene, vai a lavorare. "Zu arbeiten". Non me lo feci ripetere un'altra volta e tornai, e di corsa, al lavoro. Forse non furono nemmeno le sue parole a salvarmi, anche se furono determinanti in quel momento. Mi salvò ancor prima il fatto che la camera a gas era troppo affollata, che era già impegnata nella sua quotidiana opera di sterminio. In ogni modo se l'hauserka fosse passata mezz'ora più tardi, anch'io sarei diventata fumo.

    (Nella foto: Birkenau 1943, deportati in attesa di entrare nella camera a gas)





    9DeI6JV

    Il ritorno

    Fotografia di Alberto Novelli

    Ero rientrata a Trieste con un paio di scarpette da ciclista che mi aveva regalato un soldato italiano. Ero tornata dall’inferno di Auschwitz nuda e cruda, tenendo per mano mia sorella. Ed era come se nulla fosse accaduto. Trovammo che casa nostra era stata occupata da un fascista con la sua famiglia. Era stata data a lui, per chissà quali alti meriti, così come l’avevamo lasciata. Con ancora le posate sul tavolo, con le nostre provviste, con il pranzo già preparato sui fornelli, con la biancheria pulita pronta a sostituire quella da lavare. Con i nostri giochi di ragazzi e con i nostri libri.

    La vita di una persona è fatta anche di tanti oggetti, piccoli o grandi, spesso di nessun valore o apparentemente insignificanti per gli altri. Ma per quella persona e solo per lei hanno valore inestimabile. Sono legati a un ricordo, a una amicizia: una penna, una spazzola, un nastrino, una fotografia. Io non sono riuscita a recuperare neanche un oggetto, una piccola cosa della mia vita passata. Come volevano i nazisti, nel loro lucido piano criminale. Niente oggetti, niente ricordi, niente vita. Il fascista che aveva occupato la nostra casa non aveva alcuna intenzione di ridarcela. Fummo perciò costrette a chiedere ospitalità, almeno un letto dove dormire, a qualche conoscente.




    SEisEhu

    Ritorno a Birkenau

    Fotografia di Alberto Novelli

    Poi abbiamo cercato di ricostruirci una vita. Abbiamo frugato nelle case dei nostri parenti, che erano sopravvissuti alla Shoah, per cercare qualcosa della nostra famiglia. Anche solo una fotografia che potesse alimentare i nostri ricordi di un tempo felice. Che potesse ridarci il volto dei nostri famigliari scomparsi nel cielo polacco... Abbiamo elemosinato i nostri ricordi.

    Poi mi sono sposata, povera, senza un soldo. Anche Stellina si è sposata. Poi i ricordi, le notti d'angoscia, l'incubo continuo di nome Birkenau l'hanno sopraffatta. Ci ha lasciati. Io ho avuto un figlio e il regalo di due nipoti. Anche Giacomo si è sposato e ha avuto quattro figli e quattro nipoti. ... Mio marito aveva un laboratorio di cioccolata, una cioccolateria - che ancora oggi gestisco con mio figlio.

    Oggi mi chiedono più volte se ho mai pensato di tornare ad Auschwitz, di tornare a camminare, da persona libera, tra le baracche di Birkenau. Non sarei mai voluta tornarci. Poi alcuni superstiti, e tra questi Shlomo Venezia, che abita a Roma e con il quale mi incontro continuamente, e il sindaco della mia città mi hanno convinto a fare con loro un viaggio-studio al quale avrebbero partecipato numerosi studenti e professori.

    Sono tornata ma, devo dire la verità, soprattutto per ricordare i miei, per portare alcuni sassi sulla Judenrampe! Perché sentissero che io sono sempre, in ogni momento della mia vita, il giorno come la notte, nel dolore e nella felicità, con loro.

    Perché ogni notte io torno a Birkenau.
    C'è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare.
    Io non posso perdonare. Non perdonerò mai.



    YIyBDZN

    Il libro

    Il racconto di Ida Marcheria e le immagini di archivio sono tratte dal libro Non perdonerò mai di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi, ed. Nuova dimensione e riprodotte per gentile concessione dell'editore.



    6i6pVZ6

    Le piccole di casa

    Fotografia di Alberto Novelli

    Siamo nate a Trieste, in una famiglia ebrea come tante altre, ebree o cristiane, in un appartamento in piazza della Borsa, vicina a piazza Grande, quella che oggi si chiama piazza dell'Unità. Mio padre, che si chiamava Ernesto, era commerciante di prodotti kasher, prodotti di vario tipo come carne, azzime, e tanti altri. Vendeva e commerciava in un bel negozio, frequentato dai membri della nostra Comunità, ma anche da tanti triestini non ebrei. Mia madre, Anna Nacson, era invece una casalinga e come la maggior parte delle donne allora - ma anche oggi tocca sempre a loro - si occupava di noi figli. Il maggiore di noi si chiama Giacomo ed era nato nel 1926. C'era poi Raffaele, che era del 1927. Poi io e Stella, da tutti chiamata Stellina anche per distinguerla dalla nonna che aveva lo stesso nome. Noi eravamo le bambine, le piccole di casa.






    nationalgeographic.it/



    Edited by belias94 - 6/5/2016, 15:48
     
    Top
    .
  2.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Super!

    Group
    ADMIN
    Posts
    99,420

    Status
    Anonymous

    E' il primo film documentario in 3D girato ad Auschwitz



    E' il primo film documentario in 3D girato ad Auschwitz. È stato realizzato in occasione del Memory Day della Shoah 2012, la giornata mondiale decisa dall'Onu in ricordo delle vittime della deportazione nazista. Partecipano gli ex deportati italiani Shlomo Venezia (autore del libro "SonderKommando 182727" tradotto in 24 lingue), Andra e Tatiana Bucci (sopravvissute agli esperimenti di Mengele), Goti Bauer (testimone anche della deportazione ungherese), Sami Modiano (che appena liberato ha testimoniato al processo contro Rudolf Höß capo del lager), Piero Terracina (sopravvissuto assieme a Primo Levi, ha assistito alle riprese dello storico film russo presentato come prova al processo di Norimberga). I testimoni raccontano i fatti nei luoghi esatti in cui si sono svolti a Birkenau e ad Auschwitz. Le riprese in 3D mettono in risalto il rapporto tra gli uomini e lo spazio nel lager. Le grandi dimensioni, gigantesche per i chilometri quadrati di territorio occupato, un'enorme fabbrica della morte con baracche, forni crematori, camere a gas, torrette, filo spinato elettrificato. Le piccole dimensioni, i soffocanti spazi in cui i deportati erano costretti a sopravvivere in attesa della morte certa, sempre stretti uno affianco all'altro, nelle cucce a tre piani, nelle latrine, nel freddo all'alba durante l'appello, spazi sempre più soffocanti. "Le non persone" è stato realizzato con la collaborazione del Museo di Auschwitz. È dedicato a Ida Marcheria, la testimone triestina, ex deportata, che era sopravvissuta due anni nel reparto "canada" di Birkenau.




    Edited by belias94 - 6/5/2016, 15:49
     
    Top
    .
1 replies since 24/1/2014, 17:53   520 views
  Share  
.
Top