Cacciatori di misteri-3...viaggio in Asia

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  1. PoliceLC
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    Iniziamo ora un altro viaggio nel misterioso continente asiatico ove realtà, credenze e fatti inspiegabili permeano la quotidianeità di quelle popolazioni.

    Quindi, potevamo far attendere l'essere, misterioso per eccellenza, di quei luoghi impervii?


    LO YETI



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    Il nome Yeti viene dal termine "yeh-teh" che in Sherpa sembra voler dire: "quella cosa". Chiamato anche l'abominevole uomo delle nevi, fa parte delle credenze tibetane da secoli. Si dice che sia grande quanto il Bigfoot americano, cioè tra i centottanta centimetri ed i duecentoquaranta, con una folta pelliccia di colore marrone scuro, nero o rossastro che ne ricopre quasi completamente il corpo. I capelli sono lunghi fino alle spalle ed il viso, i denti e la bocca sono molto larghi. La forma della sua testa e' conica, e le sua braccia sono molto lunghe, fino alle ginocchia. Le impronte che gli sono state attribuite sono anch'esse enormi (fino a sessanta centimetri) e molto larghe. I nativi affermano che ci sarebbero due tipi di Yeti, i "Dzu-teh" (cosa grossa) ed i "Meh-teh" (cosa umana che non e' un uomo), i primi alti dai duecento ai duecentoquaranta centimetri, i secondi dai centocinquanta ai centottanta centimetri. I Meh-teh vengono avvistati più frequentemente dei Dzu-teh.Le prime impronte dello Yeti furono scoperte da un occidentale nel 1889 ed esattamente dal maggiore L.A. Waddell a più di cinquemila metri di quota. I suoi Sherpa lo informarono che le strane impronte che erano impresse sulla neve erano dell' "uomo selvaggio ricoperto di peli" che viveva in quell'area.Nel 1921 il Luogotenente Colonnello C.K. Howard-Bury stava conducendo una spedizione sul monte Everest. A circa seimila metri di quota, sul lato Sud della montagna il gruppo individuò numerose impronte tre volte più larghe di quelle umane. Gli Sherpa identificarono le impronte con quelle di un meh-teh. Howard-Bury capì male e pensò che la parola fosse metoh-kagmi. Un giornalista le tradusse erroneamente in "abominevole uomo delle nevi" e l'espressione rimase in voga. Nel 1925 un fotografo inglese della Royal Geographic Society di nome N.A. Tombazi testimoniò di avere avvistato, vicino al ghiacciaio del Zemu, a quattromilacinquecento metri di quota, e ad una distanza di trecento metri circa una figura che pareva a prima vista essere un uomo. Camminava eretto e si fermava occasionalmente per sradicare delle pianticelle di rododendro nano. Era di colore marrone e non era visibile alcun indumento. Successivamente sulla zona vennero ritrovate sedici impronte.

    Durante il novembre del 1951, Eric Shapton e Michael Ward stavano ritornando da una spedizione esplorativa dell'Everest ed erano intenti a studiare la testa del ghiacciaio Menlung a 6900 metri, vicino alla frontiera tra Nepal e Tibet. Scesi a 6250 metri individuarono una serie di impronte fresche nella neve alta. Furono in grado di seguire queste impronte per un miglio circa lungo la cresta del ghiacciaio. Le impronte li condussero verso quote minori, con neve più bassa, nella quale le impronte erano maggiormente definite. Shipton scattò due foto che sono sicuramente le più famose. Nel 1954, una spedizione del London Daily Mail esaminò un presunto scalpo di yeti che si diceva fosse vecchio di trecento anni. Quattro anni dopo, nel 1958, una spedizione durata vari anni e guidata da Tom Slick esaminò lo scalpo e delle supposte mani di Yeti. Una di queste, proveniente da una Lamasseria di Makulu risultò essere di un leopardo delle nevi ma l'altra non fu screditata e potrebbe quindi essere la prova dell'esistenza dello yeti.

    La mano fu ottenuta nel 1959 da Peter Byrne che era membro della spedizione di Slick ed e' ora a capo del Centro di Ricerca sul Bigfoot. Byrne fu ammesso nella Lamasseria di Pangboche, in Nepal dove supponeva che si trovasse un'altra mano di Yeti. Byrne aveva portato con sé il pollice e l'indice di una mano umana che sostituì a quelli della mano (che riuscì ad esaminare da solo). Le parti originali furono trasportate dall'India a Londra e consegnate a John Hill che ad un primo esame dichiarò che erano umane, salvo poi ricredersi quasi subito e dichiararle "non totalmente umane", forse di un uomo di Neanderthal. Lo zoologo Charles A. Leone esaminò i reperti ma non fu in grado di catalogarli e l'antropologo George Agogino ritenne che non fossero umane ma che presentassero forti caratteristiche antropoidi. L'esame del sangue dimostrò che non erano ne' umane ne' di primati conosciuti. Purtroppo si sono perse le tracce dei reperti e non si conosce il luogo dove si trovano attualmente. Nel 1970, sul Monte Annapurna uno scalatore inglese di nome Don Whillans stava cercando un posto dove accamparsi quando sentì degli strani suoni, simili ad urla. Il suo Sherpa lo informò che erano il richiamo dello Yeh-Teh e Whillans vide una figura scura in un punto abbastanza distante da dove si trovava lui in quel momento.

    Il giorno successivo scoprì delle impronte profonde quasi mezzo metro nella neve.
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    Quella notte avvertì la presenza della figura che aveva visto il primo giorno, uscì dalla tenda e vide lo Yeh-teh alla luce della Luna. Era un animale simile ad una scimmia che scappò immediatamente. Whillans fu in grado di seguirlo con il binocolo per più di venti minuti prima che sparisse nel buio. Due anni dopo, nel dicembre del 1972, una spedizione guidata da Edward Cronin aggiunse un altro tassello alla leggenda dello Yeti. La spedizione stava svolgendo delle ricerche in una valle fluviale nel Nepal orientale, dove varie rare piante esotiche ed animali si erano evoluti separatamente ed indisturbati. I membri della spedizione stavano campeggiando in una depressione a quota 4000 metri nella zona del Monte Kongmaa La.
    Howard Emery, il fisico della spedizione scoprì una mattina delle impronte di un essere bipede tra le tende dell'accampamento. Le impronte erano lunghe diciotto-ventitrè centimetri circa e larghe dodici centimetri. Mostravano un largo alluce opponibile ed una disposizione asimmetrica delle rimanenti quattro dita, nonché un largo tallone arrotondato. Essi furono in grado di seguire le impronte per un po', finché queste sparirono una volta arrivati in un territorio roccioso nel quale i membri della spedizione faticarono molto ad avventurarsi. Recentemente l'esploratore Reinold Messner ha asserito di avere incontrato e fotografato uno Yeti durante la sua ultima spedizione in Himalaya e che renderà pubbliche le foto con il suo prossimo libro. Il mistero dello Yeh-teh verrà presto svelato?


    FONTE: www.daltramontoallalba.it/criptozoologia/yeti.htm


    BY ROS & POLICE

    Edited by belias94 - 12/11/2020, 19:38
     
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  2. ROS533
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    Nella mistica regione del Tibet...alla ricerca della liberta' spirituale di un popolo...

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    Shambala: il Regno dell'Oro

    Il 31 luglio scorso gli organi di stampa internazionali diffondevano la notizia, pubblicata inizialmente dal Beijing Review, della scoperta, avvenuta nel nord del Tibet, di un insieme di tombe molto antiche. Questo gruppo di otto sarcofaghi in pietra, disposti ordinatamente, ha richiamato la curiosità degli archeologi perché la pietra con la quale sono realizzati non è presente in Tibet, sebbene le sepolture siano poste a ben 4.650 metri d'altezza. La gente del Tibet, dedita al Buddismo, non ha mai avuto una tradizione di sepolture in sarcofaghi, pertanto gli archeologi, guidati dal dott Cewang della Tibet University, hanno concluso che tali sepolture devono risalire ad un periodo compreso tra i 3.000 ed i 4.000 anni fa, almeno 1.300 anni prima che il buddismo fosse introdotto in Tibet. Questo ci riporta ad un periodo storico in cui il Tibet era abitato da un popolo la cui religione era chiamata "Bön", un credo su base sciamanica che proponeva la completa unificazione dell'uomo con le forze della natura, che rappresentavano il divino. Questa tradizione si trasmise successivamente anche al buddismo e fu codificata nella dottrina del Kalachakra (la "Ruota del Tempo"), uno dei manoscritti sacri inerenti le pratiche meditative più antiche trasmesse dalla tradizione buddista, che propone ancora una visione animista del mondo, il cui perno è un centro situato su un piano dimensionale diverso dal nostro, noto con il nome tibetano di Shambhala. Comprendere questa dottrina significa penetrare nella storia più antica del Tibet. Secondo quanto sostengono alcune cronache tradizionali tibetane, l'esistenza di questo regno risalirebbe, infatti, ad un periodo di gran lunga anteriore all'apparizione storica del buddismo. Alcuni Lama confermano che la sua origine dovrebbe essere fatta risalire all'inizio del mondo. Da parte loro, i seguaci del Bön l'identificano con Olmolungring, il paese ancestrale situato a nord-est del Tibet, dove sostengono che, più di 17.000 anni fa, ebbe origine tale tradizione religiosa

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    La Fonte della Felicità

    Shambhala, in Sanscrito, significa "Fonte della Felicità". I Lama tibetani sono fermamente convinti della sua esistenza e lo situano in un punto imprecisato dell'Asia Centrale. Questo recondito regno sarebbe situato in una qualche località a nord di quello che le scritture buddiste chiamano il fiume Sita e che vari studiosi contemporanei hanno identificato con il fiume Tarim, nella regione autonoma cinese di Sinkiang Uigur. Questo corso fluviale nasce fra le montagne di Kunlun e scorre - in prossimità del 42° parallelo - attraverso il deserto di Takla Makan e la catena montuosa di Tien Shan (le cosiddette "Montagne Celesti" dei taoisti), lungo un'estesa zona scarsamente popolata, dai confini incerti e politicamente instabile, che è tuttora uno dei luoghi meno esplorati del pianeta. In questa zona sono state trovate delle misteriose mummie bianche di razza caucasica e dalla pelle tatuata (molto simili agli ormai scomparsi Maori di razza bianca della Polinesia) che potrebbero appartenere ad alcuni degli antichi rappresentanti della religione sciamanica Bön, autori delle costruzioni in pietra di cui oggi il Tibet è pieno. Sebbene gli antropologi e gli archeologi siano ancora sconcertati da questo ritrovamento, è probabile che si tratti dei primissimi abitanti del Tibet, dai quali, probabilmente, derivò la dottrina del Kalachakra. Secondo quanto riferiscono le antiche scritture, Shambhala è circondata da un anello di risplendenti montagne innevate che proteggono il regno da coloro che non sono sufficientemente preparati per avvicinarsi ai suoi domini. Questo regno si celerebbe in un'altra realtà dimensionale parallela alla nostra (cfr. "Scienza di Ieri" pag. 46). Secondo l'antica dottrina tibetana, l'invisibile presenza di Shambhala non ha mai smesso né mai smetterà di influire sugli avvenimenti del nostro mondo profano. Shambhala, secondo quanto narrano i monaci tibetani, appare intimamente connessa alla pratica delle tecniche di meditazione del Kalachakra, poiché, secondo la loro tradizione, furono proprio queste ultime a permettere ai suoi abitanti di raggiungere una peculiare condizione d'invisibilità dal mondo esterno, di cui godrebbero ancora oggi.
    Le scritture del Kalachakra riferiscono che il sovrano di questo regno leggendario, nella tradizione buddista chiamato "Sanat Kumara" (ma che altrove ha preso vari epiteti quali "Re del Mondo" o "Prete Gianni" e che può essere identificato con il Melchitzedeq della tradizione occidentale, N.d.R.) possiede uno specchio magico con il quale può contemplare avvenimenti che accadono a migliaia di chilometri dal suo palazzo.

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    17.000 anni orsono...

    La prima menzione di Shambhala è collegata alla figura di Siddharta Gautama (il Buddha Shakyamuni, fondatore di questa corrente religiosa). Secondo le scritture del Kalachakra, i cui commentari sono vecchi di secoli, quando il Buddha raggiunse il suo ultimo anno di vita, tramandò questi insegnamenti nella città di Dhanyakataka, in India meridionale. Però, quel che più ci interessa sottolineare è che anche un re di nome Sucandra, che fu il primo sovrano di Shambhala ricordato dalle cronache, ricevette tali insegnamenti. Sucandra tornò nel suo regno, si dedicò intensamente alla pratica delle tecniche di meditazione apprese e, così facendo, divenne il primo monarca e maestro spirituale di un lignaggio di sovrani che ha insegnato queste dottrine nell'arco di più di 2.000 anni. In questo modo, sebbene originariamente il Buddha insegnò questo tantra in India, non fu in questa nazione che l'insegnamento del Kalachakra raggiunse il suo apogeo, bensì nel misterioso regno di Shambhala. Là si preservò per più di un millennio, finché, intorno al 960 d.C., questi tantra furono nuovamente diffusi in India grazie ad uno yogi di nome Chilupa, ed ebbero un'ampia ripercussione nelle regioni del Bengala e del Kashmir. In quella stessa epoca vissero altri maestri di grande reputazione, fra i quali spiccano Pindo Acharya e Naropa - un personaggio che visse in quella che è l'odierna isola di Giava - i cui insegnamenti sono gli unici che, attraverso il Tibet, siano stati tramandati ininterrottamente fino ai nostri giorni. Secondo quanto sostengono alcuni maestri tibetani, esistono ancora degli insegnamenti del ciclo del Kalachakra, nascosti a Borobudur (Giava) in un tempio costruito ad immagine dello stupa di Dhanyakataka, dove il Buddha tramandò l'insegnamento originale.

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    Nel periodo in cui, dopo la loro permanenza nel regno nascosto, gli insegnamenti del Kalachakra tornarono in India (nel X secolo), i musulmani erano sul punto di eliminare il buddismo dal subcontinente indiano. Ed è questo il motivo principale per cui questo insegnamento tantrico, in India, conoscerà solo un breve momento di splendore. Ciò nonostante, visse un rinnovato sviluppo in Tibet, dove non solo prosperò, essendo stato insegnato e praticato fino all'epoca attuale, ma giunse persino a diffondersi in Occidente. Qui, negli ultimi vent'anni, l'iniziazione del Kalachakra è stata tramandata per mano di grandi maestri del buddismo tibetano quali il Dalai Lama, Kalu Rinpoche, Lopön Chetchu Rinpoche e Sakya Trizin Rinpoche.

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    Shambhala e l'Occidente

    Shambhala iniziò ad essere nota nell'ambiente culturale dell'Occidente per mezzo dei primi missionari cattolici, che viaggiarono in Asia centrale per tentare di convertire al Cristianesimo gli abitanti di quelle remote regioni. Infatti, dai documenti risulta che, già nel XVII secolo, i portoghesi Joao Cabral ed Estevao Cacella, mentre cercavano di trovare una pista che collegasse l'India e la Cina passando per il Tibet, sentirono parlare di un regno occulto che essi chiamarono "Xembala". Due secoli più tardi, anche un altro missionario cattolico, l'Abate Huc, annotò un'ulteriore versione del mito di Shambhala.
    Verso la fine del XIX secolo l'Occidente iniziò a sfruttare politicamente la leggenda di questo regno. Tanto la Russia quanto l'Inghilterra parteciparono a quello che fu definito il "Grande Gioco", un eufemismo per riferirsi alla battaglia in corso fra queste due potenze mondiali per il controllo degli altopiani del Tibet e di un'estesa zona dell'Asia Centrale. Quest'episodio vide coinvolto un Lama di nome Dorjieff (Agvan Dorzhiev 1854-1938) che si è voluto identificare con G.I. Gurdjieff, il celebre maestro armeno creatore del Quarto Cammino. Tuttavia, dobbiamo sottolineare il fatto che Dorjieff non aveva nulla a che vedere con il Gurdjieff noto a tutti (anche se così risulta da numerose pubblicazioni di carattere esoterico) ed era invece un Lama buddista d'origine buriata che fungeva da rappresentante diplomatico dello Zar Nicola II (alcuni sostengono che fosse anche una spia al suo servizio) alla corte del XIII Dalai Lama. Lama Dorjieff ricevette anche il permesso di erigere, fra il 1909 ed il 1915, un tempio dedicato al Kalachakra nella città di San Pietroburgo. Anche altri importanti personaggi della tormentata Russia degli inizi del XX secolo furono connessi al mito di Shambhala, come l'artista ed esploratore Nicolas Roerich. Sedotto dal mito di questo regno, Roerich organizzò varie spedizioni di ricerca e, in un periodo posteriore della sua vita, promosse ed ottenne che fosse istituito il Patto Roerich ed il suo simbolo, la "Bandiera della Pace": un trattato internazionale nel quale le nazioni firmatarie s'impegnavano a rispettare e salvaguardare tutti i tesori culturali e scientifici, sottoscritto anche dall'Unione degli Stati Americani nel 1934. In seguito, nel 1954, il Patto Roerich venne modificato nella Convenzione dell'Aia. Uno dei politici che convinsero Roosevelt a firmare il Patto Roerich fu Henry Wallace, Segretario all'Agricoltura, che in seguito venne eletto vicepresidente di Roosevelt, nel 1940. Discepolo spirituale di Roerich, Wallace finanziò con fondi pubblici una delle spedizioni di ricerca del regno di Shambhala, con l'intento ufficiale di scoprire delle varietà di piante resistenti a condizioni d'estrema siccità, sebbene in privato si ammettesse che l'obiettivo reale era cercare i segni di quella che Roerich chiamava la "Seconda Venuta": qualcosa che, come vedremo, è connesso alla profezia di Shambhala. Il mitico regno venne anche identificato dalla Teosofia come dimora dei Mahatma (le grandi anime), i maestri della grande gerarchia bianca che guida i destini spirituali del nostro pianeta e che spesso si manifesterebbero da Shambhala in questo piano dimensionale sotto l'aspetto di energie luminose, erroneamente scambiate per UFO, e di cui lo stesso Roerich fu testimone. Helena Petrovna Blavatsky - un altro personaggio russo legato al mito di Shambhala - affermava di aver canalizzato gran parte degli insegnamenti teosofici provenienti da un gruppo di maestri che vivevano in un luogo nascosto, oltre la catena montuosa dell'Himalaya. Tuttavia, l'effettiva localizzazione di questo luogo straordinario ed ignoto restò sempre molto imprecisa.

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    L'Età dell'Oro

    Nelle scritture del Kalachakra sono presenti anche elementi profetici, come avviene in tutte le tradizioni religiose mondiali (si pensi all'Apocalisse di S.Giovanni della nostra Bibbia). La profezia contenuta nelle scritture del Kalachakra si concentra principalmente sul tema dello scontro che avverrà tra le forze del Dharma, cioé della verità e della giustizia, e le forze della barbarie e del materialismo, e sull'Età dell'Oro che ne seguirà. Secondo i testi tradizionali, entro pochi decenni il re di Shambhala irromperà nel mondo esterno per liberare gli esseri umani dal materialismo imperante. Seguendo la genealogia dei sovrani di Shambhala, questi sarà il 25° del suo lignaggio e sarà noto con il nome di Rudrachakrin ("Colui della Ruota Violenta").
    Per spiegare questa profezia e per situarla cronologicamente, i testi del Kalachakra stabiliscono un parallelismo fra alcuni importanti avvenimenti storici del mondo esterno e la genealogia dei suoi re. Ad esempio, essi collocano durante il regno del loro 10° re il sorgere dell'Islam nel "paese della Mecca". La maggioranza delle fonti concordano nell'affermare che il 21° re di Shambhala, Anirudha ("l'Inarrestabile"), iniziò il suo regno intorno all'anno 1927 e governerà approssimativamente fino al 2027, poiché si suppone che i regni di questi monarchi durino cent'anni, in accordo con la vita media degli abitanti del regno. La profezia prosegue dicendo che, durante la reggenza di Anirudha, il buddismo e gli insegnamenti del Kalachakra si estingueranno quasi completamente in Asia e che tale stato di cose proseguirà fino all'avvento del già citato Rudrachakrin, il cui regno giungerà intorno al 2327.
    Altri autori credono, tuttavia, che l'avvento del regno del 25° re potrebbe giungere in una data molto più vicina, forse in un prossimo futuro, poiché - secondo quanto argomentano - non tutti i sovrani di Shambhala hanno regnato per un periodo completo di cento anni. Chögyam Trungpa, celebre Lama tibetano che sviluppò la sua attività didattica in Occidente, affermava che il regno d'alcuni sovrani di Shambhala risultò abbreviato dalla morte prematura di alcuni Dalai Lama. Anche se la determinazione cronologica del momento in cui avrà luogo tale scontro non risulta troppo precisa, possiamo tuttavia basarci sulla situazione generale che, secondo le scritture, prevarrà immediatamente prima della completa manifestazione di questo regno sacro nella nostra dimensione spazio-temporale: conflitti bellici, carestie, epidemie, droghe, malattie ignote ed altri disastri affliggeranno un mondo nel quale l'umanità avrà perso qualunque percezione di ciò che significa la vera spiritualità e gli unici "dei" che adorerà saranno la ricchezza, l'ostentazione ed il potere. La profezia narra anche che due fazioni di materialisti si disputeranno il dominio del pianeta finché una delle due si ergerà a vincitore assoluto. In questo modo la potenza vittoriosa, totalmente ignara dell'esistenza di Shambhala, giungerà a credere che non esista nulla di più potente sulla faccia della Terra. Ciò nonostante, arriverà il momento in cui questo governo saprà della sua esistenza e allora pretenderà di sottomettere anche il regno al suo controllo, un atto d'aggressione che obbligherà Rudrachakrin ed i suoi eserciti ad uscire dai limiti di Shambhala per sostenere una guerra aperta contro gli attaccanti.
    Va sottolineato che il 'segno' che stabilirà l'inizio del regno di Rudrachakrin sarà una "grande ruota di ferro che discenderà dal cielo". Secondo la profezia avverranno diverse battaglie: si parla, ad esempio, del combattimento che si svolgerà nei pressi della città della Mecca. Ma la battaglia decisiva avverrà a sud del fiume Tarim, in una località situata in Iran o, forse, in Turchia. I testi spiegano anche che, dato che i barbari materialisti del mondo esterno disporranno di ogni tipo di tecnologia bellica, Rudrachakrin si vedrà obbligato a combatterli non solo con le sue temibili 'ruote volanti' ma anche con mezzi molto più sottili e sofisticati che, in definitiva, saranno quelli che gli daranno la vittoria. Così, secondo la profezia, questo re entrerà in uno stato di trance meditativo profondo, grazie al quale creerà un magico esercito con cui sconfiggerà i suoi sconcertati avversari .
    Secondo le profezie, fra i combattenti che accompagneranno il re si troveranno anche le reincarnazioni di molti importanti e celebri Lama che per molti secoli hanno pregato costantemente di poter rinascere al tempo in cui avrà luogo tale battaglia. Si dice anche che tutte le persone che abbiano ricevuto l'iniziazione del Kalachakra formeranno parte dell'esercito di Shambhala. Dopo la sconfitta dei barbari, Rudrachakrin estenderà il suo dominio su tutto il pianeta, allora sorgerà l'alba dell'Età dell'Oro, in una sorta di ritorno universale al Paradiso e tutto il pianeta si trasformerà in un'estensione di Shambhala.

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    Il significato della profezia

    Dobbiamo essere molto prudenti, tuttavia, e non tentare di trasformare gli affascinanti insegnamenti del Kalachakra e tutto ciò che concerne la ricerca del regno occulto in una scusa per eludere i doveri della vita quotidiana. L'autentico ricercatore di Shambhala non parte in cerca di questo santuario segreto per sfuggire alla realtà, bensì per addentrarsi maggiormente in essa. In questo senso il regno simboleggia la regione più profonda del nostro essere, quell'ambito interiore che è la vera fonte di tutta la saggezza, il mistero e la purezza di cui possiamo godere nella nostra vita. In realtà, come propongono gli insegnamenti del buddismo tantrico, dovremmo cercare di trasformare il nostro stesso ambiente quotidiano nel meraviglioso regno di Shambhala, ovvero, dovremmo sforzarci di trovare l'atemporale nel momento presente, l'indistruttibile nell'effimero e la spiritualità fra le imperfezioni del mondo materiale. In questo senso la profezia possiede anche un altro piano di lettura il quale ci suggerisce che, qualunque cosa accada nella nostra vita, noi raggiungeremo la piena felicità perché il nostro vero Io, la nostra identità profonda - l'equivalente del re di Shambhala - finirà per imporsi alle forze dualiste dell'egoismo e della sofferenza. Insomma, la guerra potrebbe rivelarsi più interiore che esteriore e la vittoria sarà quella sui nostri stessi 'demoni'. Seguendo questa linea d'interpretazione, esiste un'antica storia tibetana molto significativa che narra di un giovane il quale, in cerca di questo misterioso regno, durante le sue peregrinazioni giunse alla caverna in cui viveva un vecchio eremita. Questi gli chiese: "Dove stai andando?"
    "Vado a Shambhala" rispose il giovane.
    "Ah, molto bene - disse l'eremita - ma allora non dovrai andare molto lontano. Perché devi sapere che il regno di Shambhala si trova nel tuo cuore"

    Fernando Mora

    FONTE: Thule-Italia.net


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    Babaji e il mistero dei maestri immortali dell'Himalaya

    Da tempi immemorabili le popolazioni indiane e nepalesi che vivono nelle solitarie vallate pre-himalayane parlano di santi uomini che vivono ad alta quota, in perfetta solitudine, dediti alla meditazione e alla preghiera.

    Non hanno fuoco per scaldarsi nelle gelide notti, anzi sono soliti fare il bagno nelle acque freddissime del sacro Gange, vicino alle sorgenti. Non hanno neanche scorte di cibo, e loro unico riparo sono anfratti e grotte naturali. Pochi li hanno visti, sebbene molti ne parlino; pellegrini diretti alle sorgenti del sacro fiume, contadini e pastori, di tanto in tanto, ne danno notizia.

    Quello che più colpisce, in tali venerabili eremiti, è l’estremo vigore fisico, la giovinezza senza età, talvolta una sorta di alone luminoso che sembra risplendere loro sulla fronte e che pare emani dal loro capo; e la bruciante intensità dello sguardo. Spesso sono poco vestiti, eppure paiono sopportare il rigido clima montano con particolare naturalezza; si dice che possano asciugare una tunica bagnata nell’acqua fredda in pochi minuti, semplicemente indossandola, col calore che si sprigiona dal loro corpo.

    Ma la cosa più stupefacente e, per una mente occidentale, più difficile da credere è che a questi santoni (che, a parere di alcuni, potrebbero anche essere diverse manifestazioni di un’unica persona) viene attribuita un’età molto, ma molto più avanzata di quella che dimostrano; anzi, molto più avanzata di quella di un comune essere umano. Si parla di cento anni, ma anche più; si sussurra che alcuni di essi sono stati visti a intervalli di decenni, perfino di secoli, e sempre col medesimo aspetto vigoroso e giovanile.

    Il pensiero corre ai “santi immortali” del taoismo o, nel caso delle culture europee, agli artefici vittoriosi della “Grande Opera” alchemica, al conte di Saint-Germain e, in pieno XX secolo, al mitico Fulcanelli, l’elusivo autore di opere come Le dimore filosofali e Il mistero delle cattedrali.
    E’ verosimile che, in accordo con gli insegnamenti dello Yoga, alcuni abbiano raggiunto lo stadio di siddha, essere perfetto; altri di jivanmukta, liberato mentre vive; altri ancora, forse, lo stadio supremo di paranmukta, supremamente libero, anche dalla morte: che è l’ultimo stadio trans-umano, prima di giungere alla suprema liberazione dell’avatar, dotato di un corpo di luce e ormai pienamente liberato da ogni vincolo della natura, compresi lo spazio e il tempo.

    Davanti a tali possibilità, inevitabilmente il pensiero analitico-razionale dell’emisfero sinistro si domanda: “Possono succedere simili cose?”.
    Se lo è chiesto anche il bravo Tiziano Terzani che, nella sua ultima intervista, ha parlato di uno sciamano siberiano di trecento anni, capace, si diceva, di curare qualunque malattia; salvo poi verificare che era solo una leggenda, “perché - sue testuali parole - nessun uomo può vivere fino a trecento anni.” E se lo è chiesto anche quella strana figura di studioso del taoismo che è stato il francese Puget, ex militare nell’Indocina del primo Novecento, autore del suggestivo saggio L’immortalità fisica.

    Ma il problema, crediamo, posto in questi termini, risulta difficilmente comprensibile. Infatti, non si può comprendere un fenomeno di tale natura con le categorie mentali proprie della ragione strumentale e calcolante.
    Giustamente Mircea Eliade, il grande storico delle religioni (per fare solo un esempio), quando descriveva il “volo” dello sciamano nella sua opera fondamentale Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, si rifiutava di entrare nel merito se il volo fosse da intendersi esclusivamente in senso mistico e psichico o anche in senso fisico-materiale. E la stessa attitudine assumono gli studiosi dello sciamanismo presso i popoli indiani delle due Americhe.

    Chiedersi se sia solo la mente a “volare”, magari con l’aiuto di sostanze allucinogene o, comunque, di stati alterati di coscienza (e ciò vale anche per i dervisci ruotanti, nella tradizione sufi dell’Islam) oppure se ciò avvenga anche con il corpo, significa ricadere in quello sdoppiamento artificiale di res cogitans e res extensa di cartesiana memoria, che mutilando l’essenziale unità dell’Essere, tanto male ha recato alla filosofia occidentale negli ultimi quattro secoli.

    Il concetto fondamentale che bisogna adottare, infatti, è a nostro avviso che non esiste alcun “occhio esterno” capace di operare una tale distinzione perché, se esistesse, esso non potrebbe vedere se non ciò che l’occhio fisico (ma non l’occhio spirituale) è abituato a vedere, misurare e calcolare. Una tale visione distaccata, oggettiva e, per così dire, neutrale non esiste né potrebbe esistere: la ragione strumentale non dà che ragione strumentale, tertium non datur. Ben lo sanno anche i mistici e i veggenti della tradizione occidentale, sottoposti di tanto in tanto a minuziose indagini allo scopo di smascherarne le “frodi”.
    Esistevano le “voci” di santa Giovanna d’Arco, fuori del suo orecchio interiore? Il diavolo veniva realmente, cioè come un’entità esterna e oggettiva, a turbare le notti del curato d’Ars? Vedeva o udiva la Signora splendente di luce, fuori della sua psiche in stato di estasi, la giovane Bernadette Soubirous?

    Ma torniamo agli antichissimi santi anacoreti dell’Himalaya. E cominciamo col puntualizzare che quei monti non sono, per i popoli che da millenni ne abitano le pendici - sia induisti, che buddhisti - una serie di pieghe tettoniche della crosta terrestre, prodotte dallo scontro della zolla indiana con la zolla euro-asiatica (come dicono i nostri sapienti geologi); né, tanto meno, la magnifica palestra naturale per la smania di gloria e di conquista delle spedizioni alpinistiche occidentali (e, oggi, anche indiane, cinesi e giapponesi) che hanno disseminato di croci i loro fianchi dirupati e che hanno portato fin sopra gli ottomila metri di quota, insieme ai chiodi a pressione piantati nella roccia, alle bombole di ossigeno e a migliaia di tonnellate di rifiuti abbandonati, tutta la loro avidità di conquista e di possesso, la loro vanità narcisistica di primeggiare, il loro sfrenato spirito di competizione, le loro spietate rivalità e inimicizie (al punto di danneggiarsi l’un l’altra con incoscienza criminale, per esempio provocando valanghe per ritardare l’avanzata dei rivali).

    No: per le popolazioni locali, quei monti sono, né più né meno, la dimora degli dèi. Non basta: sono esseri viventi essi medesimi, sono a lor volta delle potenti divinità che possono rivelarsi benevole o malevole, a seconda della purezza di spirito, dell’umiltà o dell’arroganza degli occasionali viandanti e pellegrini. Chi sale le loro pendici è indotto a farlo con profonda consapevolezza della propria fragilità, con profonda gratitudine verso una natura viva e animata, dunque con profonda sensibilità “ecologica”, avanzando con passo leggero e rispettoso, evitando ogni inutile rumore e ogni sacrilega sporcizia lungo il proprio cammino.
    Superstizioni, leggende, miti di un’umanità “bambina”? Eppure non sono stati pochi gli occidentali che, dismesso l’usato orgoglio e l’abituale supponenza eurocentrica, hanno potuto esperire una tale dimensione spirituale nel rapporto con i monti himalayani; e non solo studiosi e viaggiatori colti, come la francese Alexandra David-Neel, ma anche alpinisti “sportivi” puri, come il tedesco Kurt Diemberger, che ne ha parlato in alcune sue pagine famose.

    In un tale contesto, si capisce che il santo immortale dell’Himalaya è una creatura d’eccezione, che ha saputo recidere per sempre ogni legame karmico e che, abbandonandosi con perfetta lucidità e con perfetta fede nell’abisso dell’assoluto, ha superato vittoriosamente gli angusti (e illusori) confini tra lo spirito e la materia, entro i quali, invece, la massa degli uomini quotidianamente si dibatte, simile a ranocchie immerse in uno stagno fangoso, e che scambiano la propria minuscola pozza per l’universo infinito.

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    Sri Babaji

    Nel celebre libro Autobiografia di uno Yogi, Paramahansa Yogananda parla di un santo venerato, Babaij, capace di portare grandi benefici a coloro che lo invochino e perfino a coloro che ne pronunzino soltanto il nome.
    Babaij vive da secoli nei recessi più alti delle vallate himalayane, immerso in preghiera e legato alla vita terrena unicamente dal desiderio compassionevole di portare benefici all’umanità ignorante e sofferente, immersa in questo nero Kali Yuga.

    Di tanto in tanto si parla di avvistamenti, di incontri, di sconvolgenti esperienze di uomini comuni (ma dallo spirito puro e devoto) con questo essere straordinario che, per usare l’espressione di Sri Aurobindo, ha saputo varcare i limiti della condizione umana e ha raggiunto, mediante l’illuminazione, quella natura sovrumana che è frutto del Risveglio; anzi quella natura più che divina, se è vero che gli dèi, nella concezione del Buddha, vivono beati per innumerevoli millenni, ma infine anch’essi muoiono perché anch’essi appartengono all’impermanenza dell’illusorio mondo fenomenico.

    Hariakhan Baba Maharaj è stato visto da testimoni fra il 1800 e il 1900.
    Parlava una mescolanza di nepalese, hindi e kurmachal,ma era anche in grado di esprimersi nella parlata del suo interlocutore, da qualunque parte dell’India questi provenisse.
    Nessuno sapeva di dove fosse giunto, ove fosse nato e quando. Possedeva tutti i siddhas (poteri) di cui parla il terzo libro degli Yogasutra di Patanjali: capacità di rendere il proprio corpo grandissimo o piccolissimo, levitazione, invisibilità, forza sovrumana, telepatia, chiaroveggenza. Era in grado di compiere miracoli; ma, soprattutto, esercitava un particolare fascino, emanava una particolare energia cui era praticamente impossibile resistere.

    Fu visto in diversi luoghi dell’India settentrionale fra il 1961 e il 1924; nelle diverse occasioni era segnalato con nomi diversi, ma divenne chiaro che si trattava della stessa persona allorchè un certo Mahendra Brahmachari ebbe una visione nel 1949. Dopo tale evento, quest’ultimo ebbe una intensa conversione spirituale e dedicò i successivi trentacinque anni della sua vita a viaggiare attraverso l’India, raccogliendo ogni testimonianza riguardo a Babaji, di cui era diventato fervente seguace. Ne risultò un libro di testimonianze, intitolato Punya Smriti, adoperando il nome fittizio di Guru Charnasrit.

    Un altro libro dedicato alla figura di Babaji, intitolato Hariakhan Baba, known, unknown (”conosciuto, sconosciuto”), di Baba Hari Dass, è stato pubblicato nel 1975 negli Stati Uniti d’America, a cura della Sri Rama Foundation.
    Altre notizie su questo straordinario personaggio, e specialmente sulla esperienza mistica e devozionale di un certo Gumani, che divenne suo discepolo, nonché su un curioso episodio avvenuto nel 1914, quando il ministro dell’educazione, Pandit Iwala Datt di Almora voleva far punire Babaji (non riconosciuto come tale) per avergli sorriso, cosa che parve al ministro una mancanza di rispetto, mentre poi si vide che quel sorriso nasceva da un reale episodio di chiaroveggenza che lasciò tutti senza parole, si possono trovare su Internet.

    Vi sono perfino due fotografie che lo ritraggono seduto in meditazione, nella posizione del loto, e che sarebbero state scattate da un certo Sorabij, che poi, al momento di svilupparle, con sua enorme sorpresa, mostrarono due diversi aspetti del personaggio, benché fossero state scattate l’una dopo l’altra: nella prima Babaji indossa una tunica e un copricapo tibetano, nell’altra solo un succinto pezzo di stoffa intorno ai fianchi.

    Ricordiamo, infine, che uno dei più famopsi discepoli di Babaji è stato Lahiri Mahasaya, nato nel 1828, che lo incontrò nel 1861 e che ricevette dal Maestro il dono della conoscenza delle sue vite anteriori, e che ebbe l’immenso privilegio di permanere nello stato del samadhi, in cui l’individuo si immerge nel grande flusso della Coscienza Cosmica, per ben sette giorni consecutivi, ricevendo poi la missione di diffondere l’insegnamento dello Yoga nelle regioni periferiche dell’India.
    Dopo un lungio periodo di discepolato in solitudine, Lahiri Mahasaya tornò a vivere nel mondo, riprendendo contatto con la sua famiglia e tornando a svolgere il suo lavoro, esempio radioso di un grande illuminato che non volge le spalle all’umanità, ma rimane in mezzo ad essa per guidarla e incoraggiarla con il proprio esempio.

    Il suo discepolo diretto, Sri Priya Yukteswar, è stato a sua volta il maestro di Paramahansa Yogananda e gli ha trasmesso, come ben sanno i lettori di quest’ultimo, quell’interesse e quell’amore per le affinità tra Cristianesimo e Induismo, viste come molto più forti degli elementi di diversità (spesso solo apparente).
    Yogananda, partendo dalla California, ha dispiegato a sua volta un’intensa opera di predicazione in Occidente, facendosi conoscere da un pubblico vastissimo.

    Qualcuno, sentendo parlare di un maestro che vive nascosto, alle pendici dell’Himalaya, da almeno un secolo e mezzo, scuoterà la testa e penserà che molti esseri umani vogliono ancora credere alle favole in questa nostra epoca di vertiginoso progresso (?) scientifico-tecnologico.
    Forse, chissà.
    Del resto, sarebbe inutile discutere con un tale scettico: per la mentalità scientista e materialista oggi dominante, tutto ciò che non è spiegabile, misurabile e -possibilmente - riproducibile in laboratorio, è solo frode o ignoranza. Se fosse per i nostri Soloni alla Piero Angela, qualche tipo di C.I.C.A.P. (Centro Italiano di Controllo per le Affermazioni sul Paranormale) internazionale dovrebbe organizzare quanto prima una spedizione alle falde dell’Himalaya per sfatare la “leggenda” di Babaji (così come, in Occidente - sia detto fra parentesi - molti credono di aver sfatato per sempre la “leggenda” dello Yeti).

    Lasciamoli alle loro tetragone certezze, ai loro tristi dogmi. Essi sono culturalmente così attardati, da non sapere che la stessa scienza più avanzata, in particolar modo la fisica delle particelle sub-atomiche, è pronta a riconoscere la possibilità di tutta una serie di fenomeni ritenuti “impossibili” dalla fisica classica (vedi, ad esempio, il libro di Ugo Plez).
    Ma è certo che anche la scienza più avanzata può solo distruggere certe nostre positivistiche presunzioni: per accedere alle verità superiori è comunque necessario un “salto spirituale che, dall’esterno (cioè, oggettivamente) non può essere né descritto, né compreso. E tuttavia rimane sempre attuale l’osservazione di Shakespeare, nell’atto primo dell’Amleto: “Vi sono più cose fra terra e cielo, di quante tutta la vostra filosofia riesca solo ad immaginare. E soltanto l’occhio interiore, allenato dalla meditazione e illuminato dalla Conoscenza, può incominciare a vederle, udirle, accettarle

    Francesco Lamendola

    FONTE: wordpress.com


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    Edited by ROS533 - 3/5/2008, 21:31
     
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    Sulle tracce di un giovane Gesù...tra i maestri immortali...

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    Foto di Gesù generata da Sai Baba nell'agosto 1988

    La misteriosa giovinezza...

    Essendo Gesù arrivato all'eta' della puberta', iniziava per lui, come per tutti i ragazzi, un nuovo periodo di preparazione ai compiti impegnativi della vita.

    Questo e' il periodo piu' sconosciuto e lungo della sua vita ! Ne abbiamo notizie da varie testimonianze (1)

    Un principe indiano, Ravanna dell'Orissa (probabilmente in contatto con i magi che Lo avevano visitato da bambino ), aveva ascoltato Gesù al tempio di Gerusalemme restandone impressionato; lo raggiunse a Nazaret e chiese di poterlo condurre con lui in India, per metterlo in contatto con i saggi indiani.

    Gesù ne fu entusiasta e ottenne il permesso dei genitori; lascio' la famiglia e segui' il principe nel lungo viaggio fino all'Orissa (presso il golfo del Bengala), nella citta' di Puri.

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    In India

    Li' era noto col nome di "Issa" o "Isa" e studio' i Veda (libri sacri della tradizione indiana) presso il tempio di Jagannath, dove fece amicizia con un sacerdote di nome Lamaas Bramas.
    Con Lamaas, Gesù giro' la pianura del Gange, fino a Benares (la citta' santa dell'India); a Benares studio' l'arte indu' della guarigione con Udraka, un grande guaritore.

    Complessivamente Gesù stette quattro anni in quella zona, imparando ed insegnando.

    Come doveva accadere piu' tardi, in Palestina, Gesù ebbe modo di scontrarsi con la maggioranza dei sacerdoti locali, per le sue idee 'rivoluzionarie' rispetto alle tradizioni ed agli interessi dei potenti.

    Egli si opponeva in particolare ai privilegi sacerdotali, che in India si esprimevano attraverso il sistema delle caste.
    Dava scandalo sia con l'insegnamento che con la sua frequentazione di cortigiane e ladri.

    A Benares i sacerdoti arrivarono a pagare un assassino per ucciderlo, ma Gesù, avvisato da Lamaas, fuggi' in tempo verso l'Himalaya.

    Nell'Himalaya

    Nell'area dell'Himalaya, Gesù visse nella citta' di Kapavistu, presso i templi buddisti, facendo amicizia con il monaco Barata Arabo ed incontrando Vidyapati, un grande sapiente, capo del tempio di Kapavistu.

    Vidyapati parlo' a Gesù di insegnamenti contenuti in manoscritti che egli aveva letto a Lasa, capitale del Tibet. Gesù volle allora leggerli personalmente.

    Cosi' Vidyapati lo fece scortare fino a Lasa, con una lettera di presentazione per Meng-Ste, un grande saggio tibetano, che lo accolse e lo aiuto' a leggere i manoscritti.

    Poi Gesù si rimise in viaggio e giunse a Leh, nel Ladak (vicino al Kashmir), dove si fermo' ad insegnare, ed opero' varie guarigioni; passo' parte di questo periodo nel Kashmir.
    Si conserva memoria di cio', sia nelle tradizioni popolari, sia in manoscritti tibetani, conservati nella biblioteca del monastero di Himis, copie tratte da originali della biblioteca di Lasa (Tibet).

    Nella zona della grotta-tempio di Amarnath, c'e' anche un tempietto , chiamato 'Takhte-Taus' (che significa: 'ove dimoro' il grande'), costruito in cima a un monte, sul luogo dove appunto avrebbe vissuto Gesù.

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    Si uni' poi ad una carovana di mercanti, diretti a Lahore (subito a sud del Kashmir): qui Gesù fu ospite di Ajainin, un sacerdote bramino, che aveva conosciuto a Benares.

    Ritrova i Magi in Persia

    Gesu', che aveva allora 24 anni, continuo' il suo viaggio fino in Persia, insegnando ed operando guarigioni; anche li' trovo' opposizione da parte del clero locale .

    Si fermo' a Persepoli, dove convennero i magi, che lo avevano cercato neonato e gli fecero una gran festa. Si lasciarono ripromettendosi di rivedersi in Egitto (zona di alte tradizioni spirituali).

    Gesù poi ando' ad Ur di Caldea, la patria di Abramo; anche li' predico' e guari', e visito' le rovine di Babilonia, monito alla superbia umana, con il saggio assiro Ashbina.

    Avendo completato il suo viaggio, Gesù torno' finalmente a Nazaret, per una breve pausa per poi ripartire ancora.

    Riparte per la Grecia

    Gesù desiderava incontrare i maestri greci; ando' fino al mare e si imbarco' per la Grecia; stette ad Atene e a Delfi, dove fu accolto molto bene.
    Spiego' che l'oracolo di Delfi parlava su ispirazione delle menti maestre della Grecia, riunite in un'unica mente superiore, che avrebbe operato finche' tali menti maestre l'avessero alimentata.

    Conclusa la sua esperienza greca, Gesù si imbarco' per l'Egitto; avra' avuto allora circa 29 anni.

    Ritorno in Egitto

    Arrivato in Egitto , Gesù ando' a Zoan, dove era stato rifugiato da piccolo; poi si reco' a Heliopolis (un'importante centro, ora quartiere di lusso del Cairo), dove si trovava un gruppo di maestri spirituali, con i quali Gesu'; voleva confrontarsi.

    I maestri lo riconobbero subito per la sua statura spirituale e si domandavano cosa potesse cercare da loro.
    Gesù chiese di essere messo alla prova, per conoscere e superare, sotto il loro controllo, le tentazioni della vita.

    Cosi', con modi imprevedibili, Gesù fu sottoposto a vari tipi di tentazioni:
    -l'ipocrisia: ingannare i sacerdoti, per timore di un loro presunto tranello
    -il tradimento, per analoghe ragioni
    -l'ambizione di divenire il fondatore di una famosa scuola filosofica
    -l'egoismo dell'abbondanza per se'
    -la paura
    -l'amore, delimitato ad una sola donna, che lo avrebbe distolto dalla sua missione universale.

    Superate queste prove Gesù studio' e lavoro' ancora con i maestri egiziani.
    Poi riprese il cammino e, passando per Gerusalemme, torno' a Nazaret.
    Poco tempo dopo iniziava la sua missione spirituale tra il suo popolo...


    FONTE: paride7.interfree.it


    (1) Le testimonianze del viaggio e della permanenza di Gesu' in Oriente sono varie e di diversa natura:

    -La scoperta, nel 1887, di un manoscritto tibetano (il cui originale sarebbe in Tibet, nel Potala di Lhasa) da parte del giornalista russo Nicolai Notovitch, che ne trovo' copia nel monastero di Himis, nel Ladakh.
    I contenuti sono riportati nel suo libro "The unknown life of Jesus Christ" ovvero "La vie de Saint Issa' "

    -Una serie di visioni ed ispirazioni avute da Levi H. Dowling, un cappellano dell'esercito americano, che le pubblico' con grande dettaglio, nel 1908, nel suo libro "Il Vangelo acquariano di Gesu' il Cristo"

    -Il controllo che Swami Abhedananda, un monaco seguace di Ramakrishna, fece nel 1922 a Himis, su quanto riportato da Notovitch. Cio' e' riportato nel suo libro "In Kashmir and Tibet"

    -L'ulteriore visita ad Himis fatta nel 1925, da Nicolai Roerich, scrittore e pittore russo e descritta nel suo libro "Altai Himalaya". In esso si scopre che, oltre nei manoscritti, il passaggio di Gesu' e' registrato nelle tradizioni popolari e viene indicato anche un albero ed una sorgente presso i quali Gesu' avrebbe insegnato.

    -La rivelazione fatta nel 1939 da un monaco del monastero di Himis a Elisabeth Gefaz Caspari, un'insegnante montessoriana svizzera, che non era andata a cercare alcunche' su Gesu', ne' sapeva nulla sulle visite precedenti. Il monaco le disse: "Il vostro Gesu' e' stato qui!", mostrandole dei manoscritti.

    -La dichiarazione di Sai Baba, fatta nel discorso di Natale del 1978, secondo cui Gesu'/Issa'/Isa passo' alcuni anni in un monastero tibetano, come menzionato nel manoscritto tibetano.

    -La testimonianza di Swami Rama, un guru che insegna negli Stati Uniti. Egli ne parla nel suo libro "Living with the himalayan masters" (1978) e riporta anche la foto di un tempietto presso il quale Gesu' soggiorno'

    -Le visioni di Anne e Daniel Meurois-Givaudan, descritte nel loro libro "L'altro volto di Gesu' " (Libro II, Cap.II, 1987) - ed.Arista, basato sui viaggi astrali compiuti dagli autori e le visioni tratte dalla memoria universale (Akasha). Esso conferma varie informazioni sulla vita di Gesu' in oriente.



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    Ancora nei misteri del Tibet...

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    Hsing Nu, il popolo delle alte montagne


    Il Tibet con le sue innevate cime custodisce grandi misteri: ora sede di Agharti, ora di Shamballa, ora custode dell’èlite di Mu, ora custode del Graal, di misteriosi libri e di perdute tecnologie.
    Gli Hsing Nu, un misterioso popolo sviluppatosi nel Tibet settentrionale, viene a completare o per lo meno ad aggiungersi ai misteri di questo fantastico paese!

    Questo popolo, il cui nome significa adoratori delle stelle, all’inizio fu sottovalutato dagli studiosi, ma i ritrovamenti archeologici ne permisero una rivalutazione, ritenendolo un popolo abbastanza avanzato per l’epoca.
    Probabilmente di origine Persiana o Siriana, confermato dal fatto che tra le loro raffigurazioni religiose vi fosse Baal, dio tipico dei popoli mediorientali, questo abitava come già detto il Tibet settentrionale, più precisamente era stanziato a sud della catena del Kun Lan, zona ormai desertica.

    La loro storia e i loro misteri sarebbero rimasti ignoti all’opinione pubblica, ed ancora oggi parecchi ignorano la loro esistenza; e, se lo conoscono, lo considerano un popolo nomade accostabile ai Mongoli, agli Unni ed ai Tartari, ma di importanza relativamente minore. Se ora ne sappiamo qualcosa in più lo dobbiamo a Dupard, un prete/esploratore francese!

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    Nell’epoca d’oro di conquista e rispettiva conoscenza di questo mondo cosiddetto periferico e barbaro da parte degli imperi europei questo prete francese scoprì qualche cosa di incredibile, qualcosa che oltre che modificare le nostre attuali teorie sul passato del mondo pone l’idea che il Tibet è sicuramente il luogo più enigmatico della Terra, ma soprattutto sarà il perno principale per spiegare il mistero, i mondi scomparsi, queste insolite teorie esoteriche, tantriche, religiose e via dicendo.

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    La scoperta avvenne nel lontano 1725 quando gli Hsing Nu erano già un popolo leggendario, avvolto nelle polveri del deserto; ma padre Dupard frugando dentro quella che sembrava la loro antica capitale trovò testimonianze archeologiche a dir poco sconvolgenti: mille monoliti che forse erano rivestiti di lamine d’argento, una piramide a tre piani (questo oggetto va a favore della famosa pancultura antidiluviana da noi più volte ipotizzata), la base di una torre azzurra, il palazzo reale, ma soprattutto fu colpito da un misterioso oggetto chiamato “la pietra lunare”: un masso bianco circondato da strani bassorilievi raffiguranti fauna e flora sconosciute.

    Qualche anno dopo un altro esploratore francese di nome Latour rinvenne lance, scudi, armi, vasellame ornato con svastiche e spirali.
    La chiave dell’esistenza e della spiegazione di questo popolo non poteva escludere gli stessi Tibetani, che come si sa sono custodi di saperi antichi di sapore esoterico. Infatti, ci dicono, fu riferito ad un gruppo di esploratori sovietici che la Piramide simboleggiava, dall’alto verso il basso: la Terra Antica, quando gli uomini raggiunsero le stelle; la Terra di Mezzo, quando giunsero dalle stelle; e la Terra Nuova, quando le stelle erano lontane!

    Parecchi si sono cimentati nel tentare di tradurre questi misteriosi passi e vi vedono la cronaca di una colonizzazione spaziali in tempi remoti, ma i Tibetani oltre che concordare su quanto abbiamo appena detto ci dicono che gli Hsing Nu trovaro nella religione il proseguimento dei viaggi spaziali. Volendo trovare un quadro chiaro riconosciamo di trovarci di fronte a un vero enigma poiché non sappiamo come inserire il fatto che popoli primitivi praticassero già i viaggi spaziali e le colonizzazioni dei pianeti: si tratta forse di quella grande civiltà X, che esistette prime dell’uomo da noi conosciuto, che si mise a colonizzare lo spazio come facciamo noi oggi, e che poi ritornò?

    Tutto è possibile, ma il cruccio è che non sappiamo come inserire tutti gli altri popoli misteriosi, le leggende paleoastronautiche e via dicendo! Immaginiamo che la nostra società abbia prodotto una certa cultura anche in campo spaziale; ad un certo punto succede una catastrofe e tutto viene cancellato, ma alcuni popoli ne conservano il ricordo. Nasce così una nuova società, ignorante, parallela a quei popoli custodi di quel sapere dimenticato, che scopre infine come la Terra ospitò un tempo una civiltà evoluta che fece anche voli nello spazio.

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    Stiamo noi facendo forse la stessa cosa? Stiamo scoprendo i resti di una civilà ancestrale di cui gli Hsing Nu forse erano i massimi esponenti o i custodi quando essa stava per cancellarsi?
    Possibile teoria, infatti anche la descrizione del monolite bianco “portato” dalla Luna e circondato da bassorilievi che mostrano misteriose faune e flore avrebbe un suo posto preciso: un souvenir della colonizzazione della Luna (questo spiegherebbe i possibili siti archeologici alieni su Marte e sulla Luna, a detta naturalmente di chi voglia credere che esistano tali resti!

    Gli Hsing Nu, che si dice siano stati padroni di tecniche avanzate di comunicazione a distanza e nello spazio (tecniche ora coltivate dai Tibetani), furono cancellati dalla faccia della storia. Si dice che furono i Cinesi gli autori della loro estinzione, ma non possiamo escludere qualche catastrofe naturale. I superstiti di questa caddero nella barbarie dimenticando il loro mirabile passato.

    La storia a questo punto sembra sempre la stessa: mondi scomparsi, tecnologie usate da misteriosi popoli forse consegnate all'umanità di allora da altri esseri provenienti dallo spazio, poi lasciati in eredità a gruppi culturali a loro volta estintasi a seguito di una o più catastrofi et simila.
    Ammettendo l’esistenza di tali razze ci chiediamo: da dove vennero? Quali aree geografiche occupavano? Perché giunsero qui sulla Terra?

    Il quadro, già di per sé difficile, si viene quindi a complicare sempre di più di fronte a queste scoperte archeologiche alternative, capaci di stravolgere teorie già di per loro senza solide basi, e forse non proprio attinenti alle realtà ancestrali che il pianeta Terra ebbe modo di ospitare.

    Pasquale Arciuolo

    FONTE: croponline.org.


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    Nella gelida Siberia....

    Il Mistero del lago di Sobolko...

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    Il lago assassino


    08.09.2001-In Asia ingoia persone e animali-

    Un lago: gite in barca, passeggiate in montagna, in parole povere una meta turistica.
    Ma cosa succede se questa depressione del suolo diventa un'entità torbida della quale avere timore?
    Semplice: nasce il mistero.

    Ed è proprio un mistero quello che avvolge il lago di Sobolko.
    Situato nella repubblica di Buryatia, nella Siberia sud -orientale , questo specchio d'acqua dolce dalle dimensioni alquanto ridotte si è visto affibbiare appellativi decisamente poco simpatici, quali"killer", "assassino" e "lago della paura".

    Ma vediamo di addentrarci nel caso, fornendo qualche numero: centinaia di persone (25 delle quali negli ultimi due anni), 300 cavalli e 500 mucche.
    Questi sono gli scomparsi, le presunte vittime di Sobolko. Sì perché il lago, negli ultimi dieci anni, avrebbe letteralmente inghiottito uomini e animali.

    I timori degli abitanti dell'omonima cittadina non sono mai stati presi sul serio, forse perché terra di sciamani ricca di leggende.
    Ma pare che finalmente da Ulan-Ude, capitale della repubblica, qualcosa si sia mosso.
    Una missione composta da medici, biologi e microbiologi, muniti di sofisticate apparecchiature, cercherà di svelare il mistero tinto di giallo.
    Ma la scomparsa di persone e bestiame non è l'unico interrogativo di Sobolko: la notte sulle sue acque compaiono delle luci di natura
    sconosciuta.

    Gli scienziati dicono che potrebbero essere fonti termali o fenomeni conseguenti alle spaccature della crosta terrestre.

    Le vicende naturalmente hanno costituito terreno fertile per le "leggende metropolitane", o meglio "lacustri". C'è chi afferma di aver visto fare capolino un mostro simile a quello di Loch Ness (sarebbe impossibile, date le dimensioni del lago) e dischi volanti che, dopo aver sorvolato lo specchio lacustre, si inabissavano velocissimi e silenziosi.

    Nell'attesa che qualche luminare faccia chiarezza sul caso, la gente di Sobolko ha paura e si tiene lontana dal sinistro laghetto.

    Secondo i locali, molte persone sono scomparse sulle sue rive...

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    In Siberia il lago della paura. Spedizione per risolvere i suoi misteri

    -MOSCA-Il "lago della paura" si trova nelle profondità della Siberia, nella misteriosa Buriazia, terra di misticismo pagano e foreste impenetrabili.
    (Anna Zafesova - Ansa)


    Piccolo al punto da non venire segnalato se non nelle mappe più dettagliate, Sobolkho - un nome che viene da una lingua indigena locale e fa pensare ad antiche legende - ora è diventato sinonimo di terrore e pericolo, un luogo di morte e mistero.

    Secondo i locali, ogni essere vivente che si avvicina alle acque di Sobolkho è in pericolo.
    La leggenda attribuisce al luogo una brutta fama fin da tempi antichi, ma esistono anche dati statistici che sono impressionanti: 25 persone sono affogate nel lago solo negli ultimi due anni, uno al mese.
    La vox populi poi parla di centinaia di vittime di Sobolkho. I loro resti, secondo quanto si dice, non sono mai stati rinvenuti: il lago inghiotte senza lasciare tracce.

    Le acque profonde hanno fatto ecatombe anche di animali, in una zona di allevamento tradizionale dove il bestiame viene spesso portato ad abbeverarsi...
    Trecento cavalli e cinquecento mucche risulterebbero sparite sulle rive del "lago della paura".

    Il panico presso la popolazione ha raggiunto livelli tali che il governo della repubblica autonoma della Buriazia, ai confini con la Mongolia, ha deciso di ordinare un'inchiesta per chiarire quanto sta accadendo.
    Una missione di idrologi, biologi e microbiologi ad agosto arriverà sul lago maledetto per cercare di strappargli i suoi segreti.
    Per ora di concreto esistono solo le testimonianze dei locali che non fanno che accrescere la paura: la notte sulle acque di Sobolko appare una strana luminescenza rosa, e i pochi che hanno deciso di avventurarsi nel lago dicono che "non ha fondo".

    In attesa di cominciare le ricerche sul campo, gli scienziati cercano di dare a tutti questi fenomeni una spiegazione razionale.
    Le luci rosate si spiegherebbero con l'esistenza nel lago di una fonte termale, oppure con la frattura della crosta terrestre sul fondo.
    La profondità enorme del lago potrebbe essere dovuta al fatto che si trova in una cavità carsica e l'acqua erode le rocce parzialmente calcaree del letto del bacino.

    Ma tutto questo non basta a soddisfare gli abitanti della Buriazia, paese lontano dalla civiltà dove, accanto a un buddhismo rurale, persistono ancora culti animisti e pagani, dove in ogni villaggio si trova uno sciamano che pratica le sue danze divinatorie e gli alberi e gli animali vengono considerati incarnazioni di spiriti della natura.

    Il soprannaturale in quei luoghi remoti è di casa. Non lontano da Sobolko si estende un altro lago "senza fondo", il profondissimo Baikal, maggior bacino di acqua non salata del pianeta, sul quale gli abitanti locali mostrano tuttora una roccia dove venivano portate le fanciulle da sacrificare a una malefica divinità delle acque.

    E così le ipotesi, sempre più numerose, sul mistero del piccolo lago siberiano sembrano uscite da una puntata di "X-files".
    Qualcuno sostiene di aver visto nella notte emergere dalla acque del "lago della paura" una sagoma strana, ed è convinto che si tratti della sorellina del mostro di Lochness. Altri, con più fede nel progresso tecnologico, giurano di aver visto Ufo che si tuffano nelle acque di Sobolko a grande velocità e senza ilminimo rumore.

    In Siberia, una missione di scienziati russi composta da idrologi, biologi medici e microbiologi, si appresta a raggiungere il lago Sabolko.

    Gli abitanti della regione, nella repubblica dei Buriati, chiama il Sobolko "il lago della paura" perchè negli ultimi anni vi sono scomparse, senza lasciar traccia, centinaia di persone e un migliaio di animali, secondo quanto diffuso dall'agenzia Interfax.
    Le autorità hanno promosso una missione scientifica per cercare di capire cosa stia succedendo nel piccolo ma pericolosissimo lago dove, di notte, brillano strane luci rosate.

    Un particolare interessante sembrerebbe quello che il lago Sabolko non ha un vero e proprio letto in quanto si troverebbe in una zona "carsica" ovvero dove esiste erosione di rocce prevalentemente calcaree da parte dell'acqua.
    Questa, trasforma il carbonato di calcio, insolubile, in bicarbonato, solubile, che viene quindi trascinato via.


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    Siberia, paura per il lago killer

    9/7/2001-MOSCA - Centinaia di persone scomparse senza lasciare traccia, inghiottite misteriosamente dalle acque del lago Sobolko, nella repubblica di Buriati.
    (Web.tiscali.it)


    Siamo nella Siberia sudorientale, terra di sciamani e leggende. Ma dopo anni di denunce e grida d'allarme sembra che finalmente la popolazione locale sia riuscita a farsi prendere sul serio. Non si tratta di visioni o allucinazioni. Le autorità del capoluogo di Ulan-Ude hanno deciso di vederci chiaro ed una missione di scienziati russi è pronta a partire per il lago della paura.

    Le cifre sono impressionanti: solo negli ultimi 24 mesi sarebbero scomparse 25 persone, 300 cavalli e 500 mucche. Ora saranno gli esperti a decidere le ragioni dello strano fenomeno. La missione è formata da idrologi, biologi, medici e microbiologi.
    Chiaramente nella zona le voci sulla presenza di creature soprannaturali si sprecano. Si parla di Ufo che si inabisserebbero nelle acque misteriose. E c'è chi sostiene di aver visto un mostro simile in tutto e per tutto al famigerato Loch Ness.
    Il lago Sobolko è un piccolissimo specchio d'acqua, spesso introvabile sulle carte geografiche. E ora terra di nessuno. La popolazione locale ha, infatti, deciso che è meglio morire di caldo piuttosto che immergersi nelle acque del mistero.



    FONTE (articoli): chupacabramania.com



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    Alla ricerca dei resti di Lemuria...

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    Yonaguni, isola dei sogni

    Yonaguni è una piccola isola all’estremità sud-ovest del Giappone, a un'ora di volo da Okinawa.
    Anticamente era parte del Regno delle Ryukyu ed è stata separata dal resto del Giappone fino al 1879, per questo motivo anche adesso queste isole possiedono un dialetto, una architettura e persino una tradizione culinaria assolutamente diverse dal resto del Giappone. Tra le attrazioni turistiche alcune rovine di castelli del periodo Ryukyu, chilometri e chilometri di costa incontaminata, ceramisti con una tradizione tricentenaria e i più moderni negozi e ristoranti. L’isola è nota anche per i suoi pony che scorrazzano liberi per le campagne. Si sa poco dell’origine di questi cavalli, sembra che siano stati portati lì dalla terraferma circa 2000 anni prima. I cavalli Yonaguni, simili nell’aspetto a quelli coreani Cheju, in tempo di guerra erano usati come cavalli da tiro e trasporto, mentre adesso sono solo un’attrazione turistica.
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    Imponenti resti archeologici

    Posti al largo del Mar della Cina, nello stretto che collega il Giappone a Formosa e sommersi a 25 metri sotto il livello del mare, rappresentano per gli scopritori la testimonianza di una civiltà vissuta oltre 10.000 anni fa.

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    Le costruzioni, di enormi dimensioni, hanno suscitato eccitazione e sgomento nella comunità archeologica internazionale. Le caratteristiche architettoniche di quella che può essere considerata una colossale struttura, di grandezza paragonabile a quella della piramide di Cheope, sono accostabili alle costruzioni mesopotamiche chiamate Ziggurat, piramidi a gradoni, tipiche dell'area medioorientale. Non possono quindi essere associate a niente che abbia a che fare con le culture nipponica e cinese a noi note. In precedenza nessuno aveva fatto caso alla presenza di queste costruzioni ed il professar Kimura è stato il primo ad aver capito che la struttura non era opera della natura, bensì dell'uomo. Inoltre, nella stessa zona, ritrovamenti di altre costruzioni si sono aggiunti alla scoperta principale, a conferma che, sommerso a poche decine di metri sotto la superficie marina, un intero complesso architettonico era in attesa di essere scoperto e fornire una nuova chiave di lettura alla storia della civiltà orientale e mondiale. Al sito sottomarino si sono interessati anche il geologo Robert Schoch e l'egittologo John Antony West, sostenitori dell'esistenza di Atlantide e consulenti per gli approfonditi studi di Robert Bauval e Graham Hancock, che hanno considerato la struttura opera della natura. Ma Kimura ha replicato a queste affermazioni. "Se i gradoni fossero il risultato dell'erosione causata dalle correnti marine ha dichiarato Kimura lo stesso fenomeno sarebbe leggibile anche sulle rocce circostanti. La scoperta di ciò che sembra essere una strada che cinge l'intero complesso, conferma che è solo opera dell’uomo". Dopo che le immagini del luogo sono state divulgate, Schoch e West hanno dovuto ammettere il loro errore.

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    Una piramide di 10.000 anni fa

    Una certa agitazione regna fra gli studiosi giapponesi, in quanto le analisi e gli studi sembrano confermare che il complesso sottomarino di Ryukyu ha strette relazioni con le rovine precolombiane ed egiziane.
    Forse si trattava di un sito religioso e cerimoniale che non ha corrispondenze con nessun'altra architettura sacra dell'estremo Oriente e che si lega invece a siti archeologici presenti in altre parti del mondo. In particolare, l'intero complesso sottomarino come progetto architettonico è sorprendentemente simile alla città Inca di Pachacamac in Perù. Il professar Kimura si dichiara convinto che il tutto è opera di un popolo molto intelligente "con un alto grado di conoscenza tecnologica e di cui finora non avevamo nessuna traccia". Anche l'età stimata del complesso lascia perplessi; Teruaku Ishi, docente di geologia all'Università di Tokio, sostiene che la Piramide sommersa potrebbe risalire almeno all'ottomila a.C.. Altri studiosi la retrodatano addirittura al 12.000 a.C.; come dire, più antica delle piramidi d'Egitto. La corrispondenza architettonica tra le strutture sommerse di Okinawa e i templi egiziani, mesopotamici e mesoamericani pone sul tavolo le argomentazioni che gli studiosi di paleoastronautica hanno sino ad oggi avanzato e che molti archeologi solo ora iniziano a prendere in considerazione: vale a dire la presenza di una civiltà planetaria molto evoluta, antecedente il diluvio, Atlantide o la leggendaria Mu, (oppure ciò che i giapponesi chiamano la mitica Onogorojima) della cui cultura prediluviana si trovano tracce nei monumenti megalitici sparsi un po' ovunque nel mondo. Il fatto che la Piramide di Ryukyu sia posta sotto il livello delle acque è un indizio consistente del fatto che la civiltà che la eresse scomparve con il diluvio.

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    Ingegneria antidiluviana

    Una civiltà che in un lontano passato dovette esercitare una grossa influenza su tutto il globo terracqueo.
    Non sono altrimenti spiegabili le notevoli analogie tra le costruzioni peruviane e boliviane e quelle giapponesi. Non è noto a molti infatti che anche in Giappone sono state ritrovate piramidi a facce levigate. Il 19 ottobre 1996 una spedizione archeologica ha scoperto nel nord del Giappone, nell'isola di Honsu, in località Hang sul monte Kasagi, una piccola piramide monolitica e simmetrica, versione in miniatura della piramide di Cheope. Formata da un unico blocco granitico, misura 4,70 metri di base per 2,20 di altezza e rappresenta un elemento architettonico del tutto sconosciuto in Giappone; sino ad oggi almeno. La piccola piramide giapponese non è la sola struttura apparentemente inconsistente con la classica architettura del Sol Levante. Molti dei lettori conosceranno le costruzioni peruviane della città di Cuzco con il suo Curichanca, il recinto d'oro, e la vicina Sacsayhuaman ancora caratterizzata da lunghe file murarie. L’ingegneria inca era contraddistinta dalla capacità di saper assemblare blocchi monolitici e giganteschi con una tecnica ad incastro che non ha corrispettivi validi in epoca moderna. Queste costruzioni hanno vinto la sfida del tempo, superando anche forti eventi sismici, pur essendo costruite senza alcun cementificante. Il segno di una tecnica superiore ancora oggi enigmatica. Il sistema ad incastro non è solo prerogativa del centrosud America. Le piramidi e i templi egiziani, la piattaforma del tempio di Baalbek in Libano, le fondamenta del tempio di Gerusalemme, oggi visitabili dalla parte cristiana della città sacra presentano la stesse caratteristiche, da molti ricercatori addebitabili ad una cultura antecedente il diluvio, in un periodo compreso tra il 10.000 e il 15.000 a.C.. Peculiarità incredibilmente presenti nelle mura di cinta del palazzo imperiale di Tokio, anch'esse formate da blocchi monolitici perfettamente incastrati l'uno nell'altro, come per le costruzioni inca e caratterizzate dalla medesima tecnica ingegneristica. Tra i resti del palazzo è stata inoltre trovata una piccola porta, versione in scala ridotta della Porta del Sole di Tiahuanaco in Bolivia, e come quest'ultima sovrastata da un idolo il cui originale è stato distrutto dai bulldozer durante gli scavi. È una statua, per stile, assimilabile agli idoli a tutto tondo peruviani. Il sistema con cui è assemblata la porta, caratterizzato da tre blocchi monolitici, sembra collegarla ai Dolmen europei e soprattutto ai Triliti che formano l'intero complesso di Stonehenge.

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    I menhir di Nabeyama

    Se, infatti, le recenti scoperte archeologiche hanno rivelato incredibili corrispondenze con monumenti americani, medioorientali ed egiziani, colpisce il fatto che anche l'architettura bretone e celtica, trovi i suoi corrispettivi in Giappone. Nella foresta di Nabeyama sono stati rinvenuti, sempre nel 1996, due Menhir affiancati, elementi del tutto sconosciuti alla cultura giapponese. Si è appurato che i megaliti dell'antica cultura neolitica europea e bretone in particolare avevano lo scopo di segnalare, come un vero calendario, i principali eventi astronomici, dalle eclissi ai solstizi, e su questi le popolazioni scandivano il loro ritmo di vita. Gli studiosi di paleoastronautica sapranno che il tempio megalitico bretone di Stonehenge ha un'origine ancora oscura e la sua data di costruzione viene continuamente anticipata. Anche in Egitto è stata scoperta, proprio quest'anno, una struttura simile, risalente al 7000 a.C., formata da monoliti di 3,6 metri di diametro e oltre 2 metri d'altezza disposti in circolo e perfettamente allineata nordsud, estovest e con il solstizio d'estate. Il fatto che queste costruzioni siano presenti in luoghi così distanti e in tre continenti differenti, Asia, Europa ed Africa, riconduce alle stesse ipotesi formulate per le costruzioni piramidali nipponiche. Una cultura sviluppata ha agito da impronta a livello planetario in un lontano passato, per poi sparire improvvisamente.


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    La radice comune

    Se queste costruzioni si trovassero in Perù o in Bretagna, nessuno avrebbe dubbi sulla loro origine. Che significato dare a queste perfette corrispondenze? La risposta deve per forza di cose considerare che America, Asia ed Europa furono in un lontano passato legate da una cultura estremamente evoluta. La presenza in terra giapponese di questo tipo di architettura conferma che Atlantide deve essere realmente esistita e che essa estese il suo dominio anche in Estremo Oriente o quanto meno influenzò con la sua conoscenza le popolazioni vicine. È un dato di fatto che sta emergendo con forza grazie alle nuove scoperte, molto più di quanto ancora gli archeologi siano pronti ad ammettere. Come si spiegherebbe altrimenti l'esistenza in Giappone di elementi estranei alla cultura estremo orientale, ma perfettamente inseribili in contesti culturali così lontani quali quelli precolombiani, medioorientali ed europei? Se il Giappone nella sua storia conosciuta mai venne a contatto con queste popolazioni, dove va cercata la radice comune? Probabilmente in una realtà cancellata dalle acque devastatrici di una catastrofe di 10.000 anni fa, che solo ora sta restituendoci un'antica memoria storica sepolta nel buio dei secoli.

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    La Lemuria di Francis Drake

    Che il Giappone facesse parte, migliaia di anni fa, di un antico impero scomparso, era già stato ipotizzato nel 1968 da W. Raymond Drake nel suo libro Spacemen in the Ancient East, in cui il Sol Levante viene inserito all'interno dei continente di Lemuria. Drake scrive che i primi coloni del Giappone erano uomini di razza bianca, custodi della conoscenza lemuriana. La bandiera del Sole nascente, simbolo dei Giappone, rappresenterebbe ancora il sacro simbolo di Lemuria. "Come gli lndù, i Cinesi e gli Egiziani, i Giapponesi hanno avuto ben dodici dinastie di imperatori divini afferma Drake che hanno regnato per 18.000 anni, suggerendo una dominazione di origine cosmica. Gli etnologi concordano sul fatto che i primi antenati dei Giapponesi erano uomini bianchi che soggiogarono gli autoctoni Ainu, oggi quasi dei tutto scomparsi, iniziando così la stirpe Yamato. Analisi linguistiche suggeriscono che la lingua giapponese ha affinità con il babilonese". Ciò conferma che non sono i soli monumenti a fornire le tracce di una radice culturale comune di epoca antidiluviana tra le popolazioni dell'antichità.
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    Chi è Masaaki Kimura

    Masaaki Kimura è docente presso l’Università delle isole Ryukyu, Dipartimento di Facoltà di Scienze, e tiene corsi di Scienza della Terra. È nato a Yokohama, nella prefettura di Kanagawa. Si è laureato presso l’Università di Tokyo, Dipartimento di scienza. Ha un Ph.D. in geologia marina. Ha studiato nei seguenti posti: Ocean Research Institute presso l’Università di Tokyo, Geological Survey of Japan presso l’Agenzia di Scienze Industriali e Tecnologiche del Ministry of International Trade and Industry of Japan, e presso il Lamont-Doherty Earth Observatory alla Columbia University. Ha iniziato ad insegnare all’Università delle Ryukyu nel 1977.
    È un pioniere degli studi di geologia marina in Giappone. È anche noto per i suoi studi sulla sismologia. Kimura aveva previsto l’eruzione vulcanica delle isole Miyake del 1983, delle isole Izu Oshima nel 1986 e del monte Fugen presso la città di Unzen, Kyushu, nel 1991. Attualmente continua a studiare la relazione tra eruzioni vulcaniche e terremoti
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    FONTE: (1) strangedays.it
    (2) nexusedizioni.it


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    Misteri dell’antica India

    Opere immaginarie o antiche tecnologie umane o aliene?



    di Antonio Mattera

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    Guerre nucleari, armi micidiali e sconosciute, velivoli incredibili che solcano il cielo, teoria della relatività, fusione dell’atomo, combinazione di leghe metalliche, insospettabili conoscenze metallurgiche: tutti argomenti che sembrano tratti da opere di fantascienza o da reportage di inviati sui fronti di guerra dal 1945 in poi.

    Terreno fertile per geni della letteratura fantasy come Lovercraft o Burroughs, o, per avvicinarci ai nostri tempi, Isaac Asimov.

    Invece niente di tutto questo: i testi che contengono tali numerosi e particolareggiati riferimenti a mezzi, armi e tecniche che suonano particolarmente familiari ai nostri tempi, cioè al tempo che vede l’uomo affacciarsi al nuovo millennio, sono antecedenti alla nostra civiltà di migliaia di anni, frutto non delle menti ardite dei grandi nomi della letteratura fantasy sopra citati, ma di ignoti scribi dell’antica India, che, in un determinato periodo storico, forse il 1500 a.C., decisero di vergare su carta millenarie tradizioni, tramandate di generazione in generazione in forma orale, magari accanto al fuoco di un bivacco di pastori o nei cortili delle case, dove un vecchio cantastorie ammaliava con i suoi racconti bambini sognanti, così come è successo per i testi biblici.

    Testi come il Mahabharata, il Samarangana Sutradara, il Ramayana, la Mahavira Chiarita, e altri ancora, suonano alle nostre orecchie stranamente contemporanei, benché non si possa nascondere lo stupore più genuino quando si considera che sono divisi da noi da una coltre di circa 3500 anni o forse più.

    E ancora più strani, questi poemi epici ( poiché così furono considerati e ancora lo sono) dovettero sembrare ai loro primi traduttori in lingua inglese che, nel tardo 1800, incominciarono , con la loro traslazione, ad affrontare un mistero senza eguali, tanto da costringere il loro principale traduttore, P. Chandra Roy, che nel 1884 terminò la traduzione del Mahabharata, a sostenere, nella prefazione, che "in questo libro vi sono molte cose che appariranno ridicole al lettore tipicamente inglese"!

    In effetti la descrizione di aeronavi spaziali (vimanas), di armi paralizzanti (mohanastra), di cannoni cilindrici ( agneyastras), di carri celesti a due piani, con tutto un contorno di razzi, proiettili e vari tipi di esplosivo, dovettero sembrare voli pindarici di fantasia, se raffrontati all’epoca, la seconda metà dell’800, in cui vennero rese note le prime traduzioni; un'epoca in cui era ancora a divenire l’invenzione dell’aeroplano, dei gas nervini (avrebbero fatto il loro esordio nella 1° guerra mondiale), dei razzi con equipaggio umano e delle bombe atomiche!

    Proprio queste incongruenze conoscitive rendono queste traduzioni tutt’altro che confutabili, in quanto, proprio per la mancanza delle conoscenze scientifiche e quindi di un’adeguata terminologia, dovrebbero essere esenti da errori dovuti ad una contaminazione dell’interpretazione linguistica.

    Quasi che fossero stati scritti oggi, invece di migliaia di anni fa, questi testi parlano di argomenti come la relatività del tempo, dei raggi cosmici, della natura dell’atomo, della legge della gravità e di altro ancora.

    La scuola filosofica scientifica Vaisesika sviluppò e conservò la teoria che gli atomi erano in continuo movimento.

    Il Mahabharata, gigantesco poema composto da 200000 versi, non solo parla di usi, costumi, religione, del cosmo, di storie e e leggende degli dei, ma si addentra persino nella descrizione di particolari macchine volanti, i vimanas, (presenti anche in altri testi), sulle loro capacità tecniche di volo, sui materiali di costruzione, e persino sul tipo di propellente usato, il mercurio rosso ( di cui oggi si fa un gran parlare, anche se la sue esistenza non è stata accertata), nonché sui principi per costruirle.

    In altri passi sembra descrivere una guerra atomica, osservata direttamente.

    Questi versi, che riporto di seguito, sembrano risvegliare in noi, lettori del 2000, paure ancestrali agghiaccianti, nate nel nostro animo dal 1945 in poi, e che raggiunsero il loro apice durante il periodo della Guerra Fredda fra USA ed URSS:

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    "Un solo proiettile, carico di tutta la potenza dell’universo. Una colonna incandescente di fuoco e fumo, lucente come diecimila soli, si levò in tutto il suo splendore; era un’arma sconosciuta, un fulmine di ferro, un gigantesco messaggero di morte, che ridusse in cenere l’intera razza dei Vrishnis e degli Andrakas.
    I cadaveri erano così bruciati da essere irriconoscibili. I loro capelli e le loro unghie caddero, il vasellame si ruppe senza causa apparente, e gli uccelli divennero bianchi. Nel giro di poche ore, tutti i cibi erano diventati infetti e per sfuggire a questo fuoco, i soldati si gettarono nei fiumi, per lavarsi e lavare i loro equipaggiamenti. Quella potente arma portò via masse di guerrieri, cavalli, elefanti e carri, come fossero foglie secche degli alberi trascinate dal vento...sembrano bellissimi uccelli in volo che volano via dagli alberi, grandi nuvole che si aprono l’una sopra l’altra come una serie di giganteschi parasoli (N.d.A.:la famosa nube a forma di fungo, tipica di un’esplosione atomica?). L’arma misurava tre cubiti e sei piedi ed era rovinosa per tutte le creature viventi. Le due armi si scontrarono in cielo. Allora la terra, con tutte le sue montagne, i mari e gli alberi prese a tremare, e tutte le creature viventi furono riscaldate dall’energia delle armi e gravemente danneggiate, i cieli avvamparono e i dieci punti dell’orizzonte si riempirono di fumo."

    Da come leggiamo, vi è anche la descrizione dello scontro fra due di questi missili in cielo:

    "Le due armi si incontrarono in cielo, in mezzo all’aria. Allora la terra, con tutte le sue montagne, i mari e gli alberi prese a tremare, e tutte le creature viventi furono riscaldate dall’energia delle armi, e gravemente danneggiate: I cieli avvamparono e i dieci punti dell’orizzonte si riempirono di fumo"

    Non siete soddisfatti? E allora beccatevi le misure di questa bomba o arma che dir si voglia:

    " Uno strale funesto come la verga della morte. Misurava tre cubiti e sei piedi. Dotato della forza dell’Idra dai mille occhi era rovinoso per tutte le genti e le creature viventi."

    In un altro testo indiano, il Ramayana, sembra esistano curiose descrizioni di viaggi
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    aerei, descritti con tanta dovizia di particolari ( frangenti sulla spiaggia, curvatura della terra, i pendìì di monti e colline, l’aspetto di fiumi, città e foreste) da far pensare che veramente questo sia il resoconto di un viaggiatore aereo dei tempi remoti.

    Ecco un brano tratto dall’epopea di Rama, mitico semi-dio indiano, narrata nel Ramayana; di ritorno da Lanka, dove si è recato per salvare la moglie, Sita, rapita dalle forze malvagie, il nostro eroe viene munito di uno di questi famosi velivoli, conosciuti come vimanas:

    Rama : "Sembra che il movimento di questo veicolo sia cambiato."
    Vishishara : "Ora questo veicolo si sta allontanando dal centro del mondo."
    Sita : "Come mai questo circolo di stelle appare..persino di giorno?"
    Rama : "Regina! E’ davvero un circolo di stelle, ma a causa dell’enorme distanza noi non possiamo scorgerlo durante il giorno, perché i nostri occhi sono offuscati dalla luce del sole. Ma ora, con l’ascesa di tale veicolo, questo non ha più ragione di essere..e così noi possiamo vedere le stelle."

    Il riferimento al circolo di stelle visibile anche di giorno solo con l’ascenzione in cielo, con il superamento del confine atmosferico, non può farci dubitare piu di tanto!

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    Molti studiosi sostengono che la grande guerra narrata nel Mahabharata non sia altro che il resoconto, mitizzato, dell’invasione ariana nel vasto territorio dell’India, effettuata da popoli provenienti dal Nord, e enfatizzano questa tesi adducendo come motivo che non vi sono tracce di una guerra nucleare.

    Invece non è proprio così. Certe parti dell’Asia, ma in generale di tutto il mondo, presentano quelle che potremmo definire cicatrici atomiche, ricevute millenni primi dell’avvento della nostra era nucleare. La Siberia, l’Iraq, l’India stessa, ma anche zone come il Colorado, negli USA, sono dei veri e propri rebus dal punto di vista della ricerca scientifica.

    Nel 1947, in Iraq, durante scavi che riportarono alla luce antichi tracce di insediamenti che andavano dai resti della civiltà babilonese ed assira, a quelli molto più remoti di un’antica civiltà primitiva, risalente ad un periodo compreso tra il 6000-7000 a.C., per finire a tracce di culture del Magdeliano, cioè circa 16000 anni fa, venne riportato alla luce un piano di cristallo fuso, simile a quello che venne a crearsi nel deserto del New Mexico, dopo l’esplosione che diede inizio alla nostra era atomica!

    Sempre in India, l’antica, e misteriosa, città di Mohenjo-Daro, vero modello urbanistico per l’epoca, presenta alcune anomalie molto strane: la sua stessa distruzione fu improvvisa e, dal ritrovamento di alcuni oggetti vetrificati, pare che sia stata sottoposta ad un’ondata di calore pari a 1500° centigradi ed ad un subitaneo raffreddamento: proprio gli effetti che avrebbe una bomba atomica fatta scoppiare al suolo. Naturalmente è superfluo affermare che nessun incendio potrebbe mai creare tale ondata di calore.

    I pochi scheletri ritrovati fanno pensare che la città fosse stata abbandonata poco prima della distruzione; inoltre, tali scheletri, ben lungi dall’essere contrassegnati da ferite di arma bianca, sono altresì estremamente radioattivi!

    Le antiche tradizioni di questi posti narrano che divinità, adirate con gli abitanti di queste città, discesero dal cielo con i loro mezzi volanti e con armi terribili portarono morte e distruzione, in una similitudine narrativa che ci riporta al mito biblico di Sodoma e Gomorra.

    Naturalmente, bisogna pur ammettere che una civiltà e un popolo, come quello di Mohenjo-Daro, seppur mirabilmente organizzati ed in grado di costruire una perfetta metropoli, con un'impiantistica urbana notevole per l’epoca, ma comunque risalente a circa il 2500 a.C., difficilmente potrebbe essere stata una civiltà con conoscenze tali da manipolare l’energia atomica; infatti non si capirebbe come abbia potuto scomparire senza lasciare minima traccia della suo livello tecnologico.
    Alla nostra civiltà, seppur giungesse ad una catastrofe simile, probabilmente non basterebbero sicuramente 4000 anni per smaltire almeno i nostri rifiuti, sotto forma di opere cementizie e metallurgiche. E allora? E’ ipotizzabile l’intervento di esseri venuti dallo spazio, con una tecnologia avanzatissima, e che avrebbero solcato i cieli, non solo dell’India, nei tempi remoti e avrebbero ingaggiato tra loro o contro i primitivi umani epiche battaglie, che in seguito sarebbero confluite in quel grande calderone che sono l’insieme dei miti umani, mai troppo valorizzati e sempre più che sufficientemente sottostimati?

    Ancora una volta ci troviamo davanti ad un enigma che affiora dal nostro nebuloso passato.

    Ancora una volta ci troviamo di fronte a prove concrete di un passato, abiurate dal dogma scientifico, che forse non è stato proprio come lo abbiamo "immaginato".

    Ancora una volta forse ci troviamo di fronte all’intervento non tanto divino, ma di esseri provenienti da altri mondi, che hanno in passato visitato il nostro mondo, hanno giocato con noi come il gatto con il topo, ci hanno manipolato geneticamente, stupito con le loro tecnologie, persino puniti, proprio come farebbero delle divinità mitologiche.

    Mappe cartografiche, fantastiche costruzioni, scheletri ed oggetti inclassificabili nei normali canoni storici, miti e leggende su creazioni e distruzioni, ed ora manuali di tecnologia dall’antica India: cosa manca più al completamento del puzzle della nostra storia?

    Forse solo la presentazione ufficiale degli alieni.

    Forse solo la rivisitazione corretta e senza paura della nostra storia da parte di studiosi che cercano disperatamente di tappare falle in una barca, la loro dottrina, che va sempre più a fondo.

    Oppure la nostra sola presa di coscienza che tutto è ciclico, che tutto si rinnova e si distrugge, e che è da meri presuntuosi porci al centro di un universo che non conosciamo appieno, pensando di poter sapere quello che è successo sul nostro pianeta nei milioni di anni trascorsi da quando si è formato.

    Fonte: Mattera Antonio, nato a Roma il 09/10/1968, e residente in Ischia (acam.it)


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    Edited by PoliceLC - 10/5/2008, 18:03
     
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    Alla ricerca delle...

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    Piramidi cinesi...


    La storia delle piramidi cinesi inizia nel 1947, quando il colonnello Maurice Sheehan fotografò da un aereo, un DC3 in volo sopra la Cina, ciò che sembrava essere una piramide.
    La sua descrizione fu pubblicata sul "New York Times" nel marzo dello stesso anno.

    Se ci atteniamo alla sua testimonianza, questa piramide aveva un'altezza di circa 300 metri mentre i suoi lati misuravano 450 metri. La stessa fotografia venne pubblicata negli Stati Uniti.
    La reazione delle autorità cinesi non tardò ad arrivare: un comunicato stampa pubblicato dall'agenzia stampa Associated Press dichiarò che la presunta esistenza della piramide non era in alcun modo suffragata da prove. Tale dichiarazione ufficiale screditò le affermazioni di Sheehan e la maggior parte dei ricercatori ritenne che il colonnello avesse esagerato nell'interpretazione delle fotografie che aveva scattato in volo.

    Tuttavia, malgrado la versione ufficiale, sembra che negli archivi storici cinesi esistessero certi documenti rivelatori, risalenti al III sec. a.c., l'epoca in cui il fondatore della dinastia Ts'in, She Huang Ti (l'Imperatore Giallo), realizzò dei grandi cambiamenti nella società cinese.
    Questo imperatore fu l'artefice della costruzione di edifici di enorme importanza, tra i quali il più conosciuto è la celeberrima Grande Muraglia, che venne eretta in seguito alla predizione di un oracolo, secondo il quale "una civiltà barbara" avrebbe invaso la Cina.

    Di assoluta importanza è anche la straordinaria piramide che ordinò di innalzare a Lin-t'ong, tra Hnan e Sin-gan.
    Secondo le fonti dello storico Sheuma Ts'ien (135-185 a.c.) per la sua realizzazione furono impiegati circa 700.000 operai e quando l'imperatore morì, nel 210 a.c., all'interno vennero racchiusi tutti i suoi tesori, sorvegliati da uno stupefacente esercito di soldati di terracotta a grandezza naturale.

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    Per mantenere il segréto circa la sua ubicazione tutti gli operai che parteciparono alla costruzione furono uccisi e sepolti nella stessa piramide; inoltre, affinché il luogo non venisse mai trovato, furono piantati degli alberi in tutta l'area in modo tale da farla apparire come una collina naturale.

    Nel 1913 gli studi di questo antico storico cinese stimolarono un esploratore tedesco, Segalen, ad intraprendere delle ricerche in Cina, con lo scopo di riportare alla luce le leggendarie vestigia dei palazzi e della piramide appartenuta all'Imperatore Giallo.
    Durante il suo viaggio Segalen registrò meticolosamente ogni suo lavoro nel proprio diario, nel quale scrisse che la piramide cinese era alta 48 metri ed era stata concepita con cinque gradoni o livelli.

    Ogni lato aveva una lunghezza di 350 metri, niente meno che 120 metri in più della Grande Piramide di Giza, in Egitto.
    Con una dimensione di 1.960.000 metri quadrati, questa piramide è al quarto posto in ordine di grandezza nel mondo, dopo quella di Cholula nel Messico e le due piramidi maggiori di Giza.

    Inoltre, l'esploratore tedesco riuscì a scoprire molte piramidi e tombe lungo il fiume Wei, risalenti al periodo Han, immediatamente successivo al regno dell'Imperatore Giallo. La scoperta non venne riconosciuta dalla comunità scientifica che la ritenne troppo recente; tuttavia, Segalen venne a conoscenza di alcune leggende secondo cui sarebbero esistite altre piramidi molto più alte e più antiche.

    Nel 1912 altri due tedeschi, Frederick Schroeder e Oscar Maman, viaggiarono fino a Shensi: entrambi commercianti di tabacco e candele, rifornivano di armi i mongoli.
    La loro guida attraverso la Cina e la Mongolia fu un monaco di nome Bogdo. In sua compagnia scoprirono sette piramidi appartenenti all'antica città di Sian-Fu (l'odierna Xian).
    Schroeder calcolò che la più grande aveva un'altezza di 300 metri, mentre i suoi lati non misuravano meno di 500 metri di base. Certamente questa è la piramide più grande del mondo, due volte la Grande Piramide di Giza e con un volume venti volte superiore. Inoltre, è interessante notare che la piramide è orientata nella stessa direzione della sua "sorella" di Giza: nord-sud/ovest-est.

    Secondo il monaco Bogdo, il cui nome significa "il saggio", queste piramidi, che hanno più di 5.000 anni, anticamente erano ricoperte da pietre ormai scomparse, sebbene sia tuttora possibile scorgerne alcune alla base.
    Questo, e il fatto che la piramide di Xian fu costruita fondamentalmente con terra, ha favorito l'azione erosiva dell'acqua che ha ridotto la piramide ad una collina naturale coperta da alberi e vegetazione, sulla quale non si scorge nessuna porta o scalinata.
    Attualmente, fotografie ottenute dalle forze aeree degli Stati Uniti hanno rivelato i dettagli della zona di Xian e vi appaiono evidenti i profili di almeno 16 piramidi.

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    Mutismo ufficiale

    li mutismo delle autorità cinesi impedisce enormemente la comprensione di queste strutture e ricorda le esperienze dell'esploratore tedesco Hartwig Hausdorf, autore del libro "Die Weisse Pyramide" (La Piramide Bianca).
    Hausdorf ha dichiarato che, nel marzo del 1994, scalò una piramide situata presso una strada che collegava l'aeroporto di Xian con la città di Xian, e dalla cima poté individuare altre 20 piramidi. Egli non si meravigliò del fatto che gli stessi abitanti cinesi ignorassero l'esistenza di tali piramidi, in quanto gli spostamenti in Cina sono assai limitati e, ancora oggi, esiste una moltitudine di luoghi il cui accesso è proibito sia alla popolazione locale, sia agli stranieri.
    D'altra parte, gli archeologi cinesi sino a poco tempo fa erano molto reticenti a collaborare con i colleghi stranieri, perciò il lavoro dei ricercatori è risultato molto difficoltoso.

    Superando ogni tipo di ostacoli, Hausdorf riuscì ad ottenere i permessi necessari per visitare alcune di queste zone proibite e per scattare alcune fotografie delle sue scoperte.
    Dopo questa visita, Hausdorf s'incontrò con un suo collega, il professor Feng Haozhang, membro prestigioso dell'Accademia di Beijing (Pechino), ed altri quattro esperti. Quando Hausdorf mostrò loro le fotografie, tutti convennero che la zona delle piramidi di Xian in Cina poteva agevolmente essere paragonata a quella del Cairo, in Egitto.

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    La Principessa Yung T'ai

    Tra gli scavi cinesi ufficialmente riconosciuti a Xian, vale la pena evidenziare quello effettuato nel 1960, quando il Ministero della Cultura decise di scavare almeno una delle tombe piramidali della dinastia T'ang (618-907), situata a circa 80 chilometri a nord di Xian.

    Mentre stavano scavando il corridoio d'entrata, ne scoprirono un altro, verosimilmente realizzato da profanatori di tombe che, come in altri luoghi di enorme interesse archeologico, erano entrati nel sepolcro in cerca del bottino che poteva esservi nascosto.

    Una volta giunti nella camera funeraria, poterono confermare che, effettivamente, doveva essere stata profanata dai ladri poco tempo dopo la sepoltura, forse circa venti anni dopo. TI sarcofago di pietra era aperto e conteneva solo dei resti ossei. Tuttavia, le nicchie poste su ciascun lato del corridoio che portava alla camera funeraria erano intatte e colme di reperti in ceramica, risalenti alla dinastia T'ang. Reperti che, all'epoca, non allettarono i ladri ma che oggigiorno sono d'inestimabile valore.
    Inoltre, vi erano anche alcune pitture murali in buono stato, che raffiguravano scene di vita alla corte dei T'ang.

    Pochi metri prima di accedere alla camera sepolcrale venne scoperta una grande lastra di pietra recante un'iscrizione che, una volta decifrata, permise agli archeologi di conoscere il nome di colei che era stata sepolta nella tomba. Si trattava, dunque, della Principessa Yung T'ai, che si suicidò insieme al suo sposo ed al cognato 1'8 ottobre dell'anno 701.

    Durante gli scavi gli archeologi trovarono uno scheletro, probabilmente appartenente ad un ladro, che giaceva con il cranio fracassato da un'ascia di ferro e parte del bottino, formato da reperti in oro, argento e giada. Questa macabra scoperta testimonia quante precauzioni adottarono i costruttori delle piramidi per proteggere i tesori dal furto e dalla profanazione.

    Ciò riecheggia anche nelle leggende e nelle storie che contribuiscono ad impedire che le piramidi principali siano studiate. Infatti, il folklore vuole che, alla loro apertura, ne fuoriescano degli spiriti maligni, portando il terrore nel mondo dei vivi. Meglio non disturbare lo spirito dell'imperatore.
    La tomba piramidale di She Huang Ti, infatti, non è stata ancora aperta. Il direttore del museo dove è custodito l'esercito di terracotta ha spiegato che è più prudente attendere qualche decennio, in modo da realizzare una tecnologia tale da poter eseguire l'apertura della tomba senza danneggiarla.

    Secondo quanto narrano le leggende, la piramide di Huang-Ti sarebbe una "piramide doppia", con un suo doppio speculare rovesciato scavato nel sottosuolo e chiuso ermeticamente da una lastra di bronzo.
    Si dice che il sarcofago di She Huang Ti sia protetto da balestre automatiche che lancerebbero strali mortali contro chi tentasse di entrare, e che sia circondato da una riproduzione in scala di tutto il suo impero, con tanto di palazzi, colline, montagne, mari e fiumi ove scorrerebbe il mercurio per simulare, con il suo tremolio, l'effetto dell'acqua.

    Il paesaggio in miniatura verrebbe illuminato da grandi lampade alimentate da olio di balena, progettate per non spegnersi mai.
    La loro tremula luce farebbe brillare le innumerevoli gemme e perle incastonate nel soffitto, al fine di riprodurre il cielo con le costellazioni e le stelle.

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    In cerca della Piramide Bianca

    Nonostante il tradizionale mutismo e l'immensa lentezza con la quale la Cina si sta aprendo al resto del mondo, è ovvio che poco a poco rivelerà i suoi misteri.
    È probabile che vi siano molte piramidi in attesa di essere ufficialmente scoperte anche se, fra di esse, ve n'è una la cui importanza può essere paragonata a quella dell' Arca dell' Alleanza o del Santo Graal.

    Alla fine della II Guerra Mondiale, il pilota James Gaussman fu costretto a modificare la sua rotta a causa di problemi meccanici. Cercando di tornare alla sua base di Assam, in India, sorvolò una valle e si trovò davanti agli occhi un'enorme piramide bianca, di metallo o di pietra.

    Sul suo vertice vi era una pietra levigata, simile ad un grande gioiello.
    Gaussman sorvolò tre volte la piramide, scattando delle fotografie con la stessa macchina fotografica che usava per documentare i movimenti delle truppe nemiche. Tuttavia, queste fotografie furono archiviate insieme al restante materiale bellico e così rimasero dimenticate per quaranta anni, fin quando il ricercatore australiano Brian Crowley ne pubblicò una nel suo libro intitolato "The Face on Mars" (La faccia su Marte).
    Sia Hausdorf che altri esploratori hanno cercato questa piramide però, per il momento, tale grandiosa scoperta è rimasta celata alle loro ricerche. Il grande enigma è scoprire chi ordinò di costruire questa piramide.

    Il matematico Bruce Cathie, autore del libro "La Conquista Armonica dello Spazio", crede che esista una connessione matematica fra alcune piramidi della Cina e quelle dell'Egitto.
    Secondo questo autore, il numero 16.944 è associato alla Grande Piramide di Giza e ci sono 16.944 minuti d'arco fra la longitudine della Grande Piramide di Giza e quella della più alta piramide della provincia di Shensi. D'altronde, la distribuzione delle piramidi cinesi lungo il fiume Wei. ricorda quella delle piramidi d'Egitto lungo il Nilo.
    Per Cathie, questa sarebbe una prova del fatto che i due complessi di piramidi ebbero gli stessi costruttori.

    Almeno un ricercatore in Cina crede che le piramidi innalzate in questo paese abbiano un allineamento astronomico e che potrebbero essere state costruite fra il 1500 ed il 500 a.c.: un'epoca in cui, secondo le cronache, la Cina era ancora governata dagli Imperatori Celesti.

    Questo leggendario legame con le costellazioni potrebbe essere identificato attraverso alcune foto satellitari di una zona dello Xian, diversa da quella dove è ubicata la piramide dell'imperatore Huang Ti.
    Esse evidenziano, però, un collegamento solo apparente con le costellazioni. Sarebbe necessario, infatti, uno studio più approfondito dei diversi monumenti e dei loro allineamenti per poter confermare questo dato, oggi purtroppo impossibile da effettuare per le ragioni già esposte.

    Le foto satellitari, in ogni caso, mostrano una interessante analogia tra alcune piramidi e la Cintura di Orione.
    A proposito della loro età, nelle sue letture psichiche il veggente "dormiente" Edgar Cayce (cfr. HERA n.22 pag.50) non fece solo riferimenti al continente di Atlantide ma si soffermò, in alcuni casi, su un'antica civiltà che occupava il nord-ovest della Cina. Una civiltà di molto antecedente alle culture asiatiche conosciute.

    Cayce affermò l'esistenza di cinque grandi civiltà mondiali che chiamava "le 5 Proiezioni" e cioè Atlantide, Lemuria, Eden, Egitto e Himalaya. A quest'ultima si riferiva anche con epiteti come la "Terra del Gobi" o la "Terra dei Mongoli".
    Questa avrebbe occupato un territorio fra il Tibet, le montagne di Tien Shan (tradizionale dimora di Shambala) sino al fertile Xian, l'area delle piramidi, e al deserto del Gobi in Mongolia. In effetti, i Cinesi si tramandano leggende circa un popolo magico chiamato "Hsia" che popolava il mondo molto tempo fa.
    Che le più antiche piramidi possano essere collegate al ricordo di questa antica civiltà?

    Robert Goodman

    FONTE: heramagazine.net


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    Edited by ROS533 - 14/5/2008, 15:28
     
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    Giappone soprannaturale...

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    Spesso si dice che il Giappone non ha una storia veramente valida da essere documentata, oppure che non ha una storia da far invidia a quelle che possono essere le antiche civiltà del passato come quella greca, romana, egiziana, babilonese, cinese...
    e da ciò anche l’idea che il riferimento a enigmi irrisolti o all’ipotetico passaggio di esseri extraterrestri in un antico periodo siano piuttosto scarsi.

    Tutto questo in realtà non è vero poiché se scaviamo nella storia, nella cultura, nella politica più arcaica di questa nazione vediamo che ci sono tanti riferimenti degni di essere valutati e apprezzati, a volte del tutto originali, così come i misteri di questo isolato angolo di pianeta che sebbene non abbiano avuto la fama e la gloria di altri luoghi misteriosi dell’Asia come il Tibet, Agharti, la civiltà Khmer, la città di Khara Kota, non devono essere ignorati, ma anzi devono essere studiati, approfonditi e capiti.

    Un primo studioso a spezzare una lancia a favore del paese del Sol Levante è stato l’ inglese Drake che con la sua opera "Spacemen in the Ancient East" asserisce che i primi coloni del Giappone erano esseri di razza bianca proveniente dall’ormai sommerso continente di Mu, i quali regnarono per circa 18.000 anni sugli Anui (una popolazione locale) antenati della stirpe Yamato, sfortunatamente estintisi col passare dei secoli.

    Come è di consuetudine nel mondo del mistero non possiamo dire con certezza se le ricerche e le ipotesi di Drake siano fondate o non, ma il ritrovamento di certe costruzioni antidiluviane a largo del mar della Cina (Yoganumi), così simili alle piramidi Americane o Egiziane confermerebbero i suoi studi.

    Non possiamo neppure dimenticare il ritrovamento di piramidi nel nord del Giappone e il riferimento a uomini biondi e con gli occhi azzurri, così presenti anche nelle tradizioni arcaiche di tutto il mondo conosciuto.
    Tutti questi dati sono a favore delle tesi dell’autore inglese.

    Come abbiamo visto quindi misteri irrisolti del Giappone escono sempre di più allo scoperto, ma sfortunatamente le teorie appena enunciate non soddisfano appieno, sia perché non hanno solidissime basi, sia perché rispetto ai casi che stiamo annunciando, interessanti, risultano solo delle supposizioni un po' più aleatorie.

    Ma che cosa hanno questi casi di così importante da sfaldare qualsiasi altra teoria e supposizione circa i misteri del Giappone arcaico? Non è tanto di cosa esse trattano quanto il fatto che esse sono pienamente salde nella coscienza storica di questo paese, tanto da diventare un caso normale come se trattassimo di battaglie, conquiste territoriali e alleanze politiche.

    Le cronache fanno riferimento a esseri che per la loro natura possono essere classificati come extraterrestri, ma non extraterrestri qualsiasi bensì diretti discendenti forse di qualcosa di grande, qualcosa che può arrivare a collegare anche alla stirpe che dominò sugli Anui.

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    Casi interessanti

    1) Nella storia arcaica del Giappone si fa riferimento a esseri chiamati Emishi o Kuzu che vivevano in buche scavate nel terreno così da aggiudicarsi il nome di Tsuchiguno, ovvero, “ragni della terra”.
    Ma le sorprese non finiscono qua, infatti i testi antichi Giapponesi dicono che gli Emishi erano "veloci come uccelli nel salire sui monti e agili come quadrupedi nell’attraversare le pianure e le valli, bevevano sangue e portavano sempre armi celate fra le vesti ampie. Gli scheletri rinvenuti presentano braccia e gambe lunghissime e un tronco piccolo; veneravano inoltre l’orso, poiché ospitava spiriti divini".

    Ecco quindi un primo caso di esseri diversi, e questa volta pienamente documentati dai testi arcaici; ma alcune domande sorgono spontanee, dopo la lettura di certi passi: chi erano questi esseri? Qual era la loro precisa natura? E soprattutto, da dove venivano?
    Sfortunatamente, queste domande non hanno una risposta finita. Dobbiamo continuare a indagare, ma per il momento diciamo che potevano essere superstiti del continente di Mu, giunti chissà come in Giappone.

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    Si noti le tre dita terminanti a
    uncino col dito medio più lungo, i piedi palmati e sopratutto i suoi misteriosi "aghi"sul capo, classificati probabilmente come "antenne di natura extraterrestre".


    2) Il secondo caso riguarda esseri più "famosi", conosciuti col nome di Kappas o anche col nome di "leggendari uomini dei canneti", presenti nel Giappone al tempo di Heian (dal IX all' XI secolo dopo Cristo).
    Cosa avevano di particolare? Erano descritti come normali esseri umani, ma caratterizzati da strane deformazioni fisiche. Infatti, i testi antichi ci dicono che:
    "Questi uomini appaiono come bipedi dagli arti palmati e muniti ognuno di essi di tre dita terminanti a uncino , con il dito centrale notevolmente più lungo. La loro pelle è bruna, liscia, serica e lucida, il loro capo sottile, le orecchie grosse, gli occhi grandi e triangolari. Sulla testa portano un curioso cappello con quattro aghi ed il loro naso ha l’aspetto di una proboscide che termina dietro le spalle, dove s’unisce a una gobba e a forma di cassetta".

    Parecchi studiosi per tanto tempo non hanno saputo come classificare questi esseri e si è arrivati alla conclusione che si trattasse di sommozzatori, infatti: "la pelle bruna e lucida" poteva essere una tuta impermeabile, "le mani e i piedi palmati" potrebbero essere stati arnesi per il lavoro subacqueo e "la proboscide terminante in gobba" poteva essere un normale apparecchio con tanto di bombole ad ossigeno; ed "i quattro aghi" normali antenne!

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    Poniamo quindi la nostra consueta domanda: com’era possibile la presenza nel IX-XI secolo di subacquei? Da dove venivano? Cosa ci facevano in Giappone? Si trattava veramente di esseri di altri mondi o solo mostri di racconti popolari?
    Come sempre la risposta non si conosce, e tutte le ipotetiche interpretazioni sfociano in un caotico quadro di immane incertezza.

    Sebbene, quindi, il quadro suoni abbastanza confuso abbiamo gli elementi necessari per formulare un' ipotetica teoria prendendo in considerazioni anche le non sicure tesi di Drake e di Mahikari, le quali pongono uno strettissimo legame tra il mondo di Mu e l’Asia; anche se il nostro punto di forza rimane principalmente la teoria di Drake.

    Consideriamo anche come punto per la nostra tesi le costruzioni antidiluviane di Yogunami e le piramidi del Nord del Giappone; ma per chiarire il tutto enunciamo qui la teoria:

    "Circa 10.000 anni fa un progredito popolo dagli occhi azzurri e i capelli biondi provenienti da stelle lontane arrivò sulla Terra stabilendosi su una felice isola del Pacifico chiamata Mu o terra dei Nacaal, “i fratelli santi” (ricordiamo il caso James Churchuward). Questo popolo era perfetto , utilizzava un’alta tecnologia , possedeva una grande scienza, aveva una grande base spirituale e morale, possedeva eccellenti doti naturali quali telepatia, capacità di guarire, capacità di volare e forza sovraumana..."

    Per ignote cause naturali o tecnologiche questa civiltà cola a picco, ma fa di tutto per non estinguersi totalmente; trova un nuovo continente, l’Asia, e cerca di portarvi la sua cultura , crea Agharti , la civiltà Tibetana , la Khmer, la città di Khara Kota, l’Indiana, la Cinese ma si ferma anche in Giappone diventando signore degli Anui.

    Naturalmente ci vuole tantissimo tempo per creare una nuova civiltà (si parla di secoli visto che il caso dei Kappas è trasportato al IX XI secolo). Vengono inviati da Mu ( non ancora del tutto colata a picco) addetti specializzati (Kappas e Emishi ) che devono impegnarsi (un impegno relativo visto che si tratta di semplici tecnici) a costruire il nuovo mondo e naturalmente soggiornano lunghi periodi presso l’ultimo degli imperatori Giapponesi ancora custodi del sapere di Mu , vi sono anche terrestri arcaici che non conoscono ancora le più grandi invenzioni tecnologiche e rimangono sorpresi da quanto vedono e stampano gli avvenimenti nei loro testi, da essere così tramandate di generazione in generazione. Non nascondo che si tratti di un'ipotesi a tratti fantasiosa, ma che a mio avviso potrebbe rispecchiare ipoteticamente parlando i fatti che avvennero tanti secoli fa, visto tutti quei miti e tutti quegli avvenimenti che mettono in diretto contatto l’Asia con una terra scomparsa nel Pacifico.

    Potrebbe essere questa la verità? Oppure nella nostra analisi qualcosa ci è sfuggito e dobbiamo abbattere tutto e ricominciare da zero? Se sì, come si evolverebbero poi gli schemi, o più precisamente, a cosa giungeremmo? Quale sarebbe la nuova ipotetica verità?

    Pasquale Arciuolo


    FONTE (stralcio): croponline.org


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    Alla scoperta dei poteri soprannaturali de...

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    La Pietra di luce


    Qual è il segreto della Pietra di Luce, fondamento del potere supremo, di cui Christian Jacq parla in una sua quadrilogia ? E' un oggetto o un simbolo? E' forse la Tuaoi, il Cristallo primordiale in uso ad Atlantide, che sprigionava l'energia per cui tutto si muoveva, una pietra diversa da come noi intendiamo un cristallo... e che si attiva con un preciso raggio di luce?

    Soma, Elixir di Vita, Manna, Prana, Pane quotidiano (o finto pane), nonchè Oro di Salomone, sono i termini attribuiti, nel tempo, a qualcosa che potrebbe essere la Pietra di Luce. Forse è la mitica mkfzt, la shem.an.na mesopotamica, la manna di Mosè, più leggera di una piuma, eppure chiamata "pietra". Chiamata poi dagli alchimisti medievali -pietra filosofale-. Forse la punta da posare sulla Grande Piramide, nascosta nell'Amenti. Qualsiasi cosa sia, la troveremo solo se siamo disposti a cercarla.

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    Lo Shamìr

    Tutti ci chiediamo come gli antichi popoli abbiano fatto certe cose: tagliare massi enormi con tanta precisione, affinare superfici fino a renderle lisce come specchi, assemblare monoliti come fossero tessere di domino, un gioco. O incidere microscopiche scritte su aree di duro, durissimo quarzo, per esempio. Ovviamente senza lenti d'ingrandimento, raggi laser, e tecnologie che, secondo il ragionamento comune, fanno parte di una evoluzione lineare e progressiva.

    Se guardiamo a quanto ci è arrivato dal passato, ci sono delle incongruenze. Testimonianze discordi nell'evoluzione, nel bagaglio di attrezzi conservato, nella valutazione dell'insieme, rispetto a semplici quanto evidenti particolari. In compenso abbiamo un patrimonio mitologico mondiale infinito, che racconta e spiega "a modo suo", quello che non riusciamo ad immaginare e ci ostiniamo ad ipotizzare con i limiti della logica.

    Sono le leggende, e i testi tradizionali antichi, a proporci spiragli di reinterpretazione dei misteri del nostro passato: paragonandoli, rivelano preziose analogie, segno di un barlume di verità comune (o di inconscio collettivo), nonostante migliaia di chilometri separino geograficamente e culturalmente, le etnie. Possono cambiare i nomi e i contorni, ma una ricerca approfondita e paziente ha rivelato, in più occasioni, radici comuni anche nei termini di idiomi apparentemente slegati tra loro.

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    Veniamo allo Shamìr. Cosa sia non si sa. Perchè ne scrivo? Perchè in questo momento è il più recente anello di una catena che lentamente si costruisce attraverso le notizie che mi capitano tra le mani, nella ricerca della Pietra di Luce.
    Nel 587 aC, i Caldei (o Babilonesi) conquistarono per la seconda volta Gerusalemme, e asportarono dal Tempio di Salomone, tra le varie cose rimaste, la vasca per la purificazione dei Sacerdoti, le due colonne simboliche e, si dice, quello contenuto in esse (erano cave): l'archivio storico del popolo di Israele e i documenti che testimoniavano preziosi segreti scientifici, tra cui lo "Shamìr", misteriosa cosa, che permise di costruire il Tempio stesso.

    Secondo la Legge mosaica, divina, nessun materiale (oro, pietra, legno, avorio o altro) poteva essere lavorato con attrezzi di metallo con cui eran fatte le armi.
    L'unico modo alternativo di lavorare la pietra per il Tempio, senza utilizzare i suddetti strumenti, era quella di usare lo "Shamìr", consegnato a Mosè da Dio, sul Sinai, evento che ricordiamo almeno per le Tavole della Legge e per l'arbusto spinoso che ardeva senza carbonizzarsi.
    Come arrivò lo Shamìr a Salomone, lo racconta una storia, che troviamo simile in tanti altri popoli: Asmodeo, demone che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti, rivela al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr all'Angelo del Mare, il quale lo affidava, raramente, al gallo selvatico (o altro uccello simbolico, anche un rapace), per piantare gli alberi sulle nude colline pietrose. Salomone, con uno stratagemma, sottrae lo Shamìr e viene a sapere che la "sostanza" proviene dalle Montagne dei Dormienti.

    Dello Shamìr, attraverso narrazioni e ricerche (su testi rabbinici), si sa quindi che:

    -Fu creato il sesto giorno: quando Dio pone sulla Terra la fauna, l'uomo e la flora. La sua seconda apparizione sarà nelle mani di Mosè, ai tempi dell'esodo
    -Era grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo.
    -Possedeva la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti.
    -Per questo venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale, poi incisi con lo Shamìr. Il fatto più straordinario fu che l'attrito (o l'azione) che segnò le gemme non produsse nessun residuo.
    -Non poteva essere conservato in un recipiente chiuso (di ferro o di qualunque altro metallo), poiché lo avrebbe fatto scoppiare.
    -Doveva essere avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo.
    -Non inibiva la crescita delle piante, secondo il racconto dell'uso che ne faceva il gallo.
    -Divenne inattivo (?) negli anni intercorsi tra la costruzione del Tempio e la sua distruzione.
    -Rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l'aquila (o il gallo) a prenderlo. Era il più meraviglioso possesso del re.
    -Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr scomparve.

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    Anche le due Tavole della Legge, portate da Mosè al suo popolo, potrebbero essere state incise usando lo Shamìr.

    Il Testamento di Salomone (testo apocrifo del primo secolo, narrativo, a carattere prevalentemente leggendario), narra che durante la costruzione del Tempio, gli operai soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza di giorno, e incubi nella notte. Quando incominciarono a morire, Salomone salì sul monte Moria, pregò Dio, e ricevette - tramite l'arcangelo Michele - l'anello d'oro, quello su cui era incisa la stella che conosciamo e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza.
    In quell'anello, in seguito, venne incastonato lo Shamìr, una specie di rutilante "pietra verde", un "portentoso gioiello che irradiava luce". Vampiri e dèmoni (gli incubi) furono messi a tagliar pietre giorno e notte, al posto degli operai! (ecco la capacità, attribuita a Salomone, di esorcista).
    Quindi lo Shamìr, poteva essere simile a un granello d'orzo di colore verde; poteva essere usato per lavorare qualunque minerale, era in grado di intaccare il vetro, la sua azione non lasciava residui. Poteva essere manipolato a mani nude, sebbene con notevoli problemi di salute.
    Il dizionario ebraico oggi definisce "shamìr":

    .diamante
    .verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario
    .finocchio
    .paliuro

    L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine "niàr shamìr" che in ebraico moderno indica la comune carta vetrata. Shamìr deriva, probabilmente, dall'indoeuropea "smer" (polvere minerale per levigare o segare). In greco tale materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino "smericulum", per noi italiani è lo smeriglio. In inglese emery = smeriglio (il falcone smeriglio si dice "merlin").
    Il disco diamantato e la carta smeriglio che conosciamo, durante l'uso, creano polvere di scarto e non sono reattivi, pericolosi.
    Il "verme" pare derivi dalla errata traduzione di "insectator", tagliatore, in insetto che pratica fori; personalmente ho ricordato il geroglifico corrispondente alle onde dell'acqua, una linea ondulata (la lettera "n") che può sembrare un verme, che richiama un pò tutte le forme di energia, in egizio. Quando, per esempio, le dee inviano la loro energia verso Osiride, si vede uscire dalle loro mani proprio questo segno.
    Un altra similitudine è possibile riscontrarla con la forma del serpente, la kundalini della tradizione orientale, o il caduceo (sapevate che nel 1818 il Corpo di Chirurgia Generale dell'esercito americano ha posto un gallo sopra lo stemma per metà rappresentante la bandiera americana e per metà il bastone di Esculapio?)

    Pensare quindi ad una forma di energia? Corrosività e "attività" che può esaurirsi fanno pensare alla radioattività. Forse un minerale precipitato con un meteorite (lo portava un uccello, dal cielo). D'altra parte il malore comune agli operai, condotti fino alla morte, fa pensare a una contaminazione radioattiva, anche se ridotta a tre giorni.
    Oppure un minerale particolare, generato da scariche elettriche. O generatore di scariche elettriche.... come un laser primitivo (senza nessuna accezione sminuente). Una luce in grado di uccidere (un verme il cui sguardo faceva morire). Ma perchè il collegamento moderno con il finocchio e il paliuro?
    Conosciamo il primo, mangereccio, che nella tradizione mediterranea entrava in una serie di rituali contro il malocchio (chi non ricorda "occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio"?) e di cui conosciamo le proprietà curative.
    Il secondo è conosciuto anche come marruca o spina-christi, per la tradizione è con essa che venne fatta la corona di Cristo.

    Isaia, il profeta, parlando dello Shamìr, cita spini, rovi, pruni. Come la pianta intricata che Mosè vide ardere. La stessa pianta in grado di neutralizzare il veleno dei serpenti o intossicare, l'Haoma di Zarathustra (custodito dall'uccello Saena), il Soma di Brahama (gestito da Garuda, gigante mezzo aquila), l'Esphand assunta da Maometto prima di ricevere il Corano?
    Ma il paliuro non è tossico. Tanti sono gli arbusti locali, quindi il riferimento, nel tempo, può essere stato addomesticato per "analogia" e ora indicare piante simili a quella originale. Una o più piante contenenti sostanze da mischiare?
    E' plausibile una aggressione chimica: non lascia tracce di materiale di scarto, ma può sviluppare fumi velenosi ed ustionare, come l'acido fluoridrico, di cui è famosa l'altissima reattività e le lesioni irreversibili che crea nell'uomo, simili a una contaminazione radioattiva.

    Forse una speciale "mistura vegetale", come quella conosciuta dai "sapienti" egizi preposti all'Arte, in grado di disgregare superficialmente qualunque roccia o pietra, trasformandola in una pasta malleabile fino a quando il solvente non fosse evaporato.
    "Farr" o "khvarnah" ("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), sono i nomi con cui una leggenda iraniana indica una essenza divina che permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio.
    L'ossidiana, veniva trattata con notevole perizia sull'altopiano anatolico, precedentemente al 6200 aC. Anche a Gerico e, ancora prima (10.000 aC) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van.
    In Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., vennero costruite 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli, per ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 individui. Scavate nella roccia, collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, aerate da condotti di ventilazione del diametro medio di 4 centimetri.

    Secondo i miti egiziani il Dio Seth tagliò le rocce, la casa del fratello Osiride, con qualcosa di simile allo Shamir. A Tula possiamo notare statue con arnesi denominati "serpenti di fuoco", gli "Xiuhcoati", del tutto simili a quelli che, a Tiahuanaco, impugnano i miti di Kalassasaya: strumenti che si dice siano stati in grado di generare "raggi infuocati" tali da trapassare un essere umano.
    E come spiegare le molte iscrizioni sui reperti in Mesopotamia ed Egitto? Pietre ornamentali e da sigillo, in diorite, ossidiana, basalto, lavorate come fossero cera, con incisioni di spessore inferiore agli 0,16 millimetri.
    "Le pietre magiche", di Santini De Riols racconta che per lavorare queste pietre destinate al culto, veniva usato un "punteruolo consacrato".Quindi lo Shamìr spinoso, in grado di incidere pietre come il diamante e capace di crescere su terreni impervi: la Montagna dei Dormienti, nome che fa pensare a un luogo silenzioso, dedicato ai trapassati, come Petra, misteriosa città completamente scavata nella roccia.
    Continua la ricerca della Pietra di Luce, e di ogni sua possibile espressione.

    FONTE: web.tiscali.it


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    C'è un uomo-pesce nel Mar Caspio ?

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    Una creatura marina dall'aspetto umanoide avvistata sulle coste di Azerbaijan e Iran.
    Nel corso degli ultimi due anni, i residenti di alcune zone costiere dell'Iran e dell'Azerbaijan, nel sud-ovest del Mar Caspio, avrebbero segnalato la presenza di una creatura anfibia il cui aspetto viene descritto come somigliante a quello di un essere umano.
    Nel marzo di quest'anno il resoconto di alcuni testimoni oculari, membri dell'equipaggio del motopeschereccio azero Baku, è stato pubblicato in Iran dal quotidiano Zindagi. La notizia è stata quindi ripresa sulle pagine russe della Pravda, che cita i contenuti dell'articolo.

    "Quella creatura nuotava accanto alla nave, seguendone da parecchio tempo la rotta", dichiara il capitano Gafar Gasanof. "All'inizio pensavamo fosse un grosso pesce, poi abbiamo notato dei capelli sulla testa del mostro, e le pinne parevano davvero strane... la parte anteriore del suo corpo era munita di braccia!"

    Al rientro in Azerbaijan, nessuno prese sul serio il comandante del peschereccio. Il suo racconto suonava troppo ridicolo, specie a chi pensava che l'uomo potesse aver alzato un po' il gomito mentre si trovava a bordo.
    Subito dopo la pubblicazione dell'intervista, invece, gli uffici del giornale iraniano si sono ritrovati sommersi dalla posta dei lettori, i quali sostenevano la storia come un'ennesima dimostrazione dell'esistenza del cosiddetto "uomo del mare". Le numerose lettere precisavano che molti pescatori avevano ripetutamente visto la sconosciuta creatura, sia in mare che a riva, dopo che i vulcani sottomarini nella zona di Babolsera erano tornati in attività a febbraio, e a seguito dell'intensificarsi delle estrazioni di petrolio in mare aperto.

    Ogni diretto testimone sembrava fornire una simile descrizione del presunto umanoide marino. Fra i 165 e i 168 cm. di altezza, corporatura robusta, stomaco prominente e squamato a pettine. Braccia e gambe che appaiono più tozze e pesanti di quelle d'una persona di media costituzione; le estremità pinnate, con quattro dita nelle mani palmate, munite di artigli. La pelle di un pallore lunare, con dei capelli di colore nero e verdastro. La figura avrebbe poi grandi occhi tondi, spine su una protuberanza a becco che ricorda il muso dei delfini, e una bocca piuttosto larga, sporgente nella parte superiore delle fauci, mentre il labbro inferiore degrada direttamente sul collo, in assenza del mento.

    Gli iraniani chiamano questo essere Runan-shah, "il padrone del mare e dei fiumi". Alcune storie lo descrivono mentre si accompagna a enormi banchi di pesce, altre narrano che le acque in cui nuota diventano cristalline, restando così limpide per giorni. Secondo qualche pescatore, i pesci presi nella rete possono sentirlo mentre risale dal profondo del mare, e producono suoni gorgoglianti al suo approssimarsi, appena percettibili, come in risposta al simile e gutturale richiamo emesso dalla creatura.
    Sempre a quanto riporta la Pravda, ancora nel maggio scorso il misterioso uomo marino era stato visto da diversi pescatori azeri, che vivono nei villaggi fra le città di Astara e Lenkoran.

    Chissà, forse c'è ancora in giro una colonia di abitatori del profondo, scampati alla rovina della lovecraftiana Innsmouth per rifugiarsi in un mare più remoto e tranquillo. O meglio, lasciandoci avvincere dalla suggestione del tutto, potremmo sognare che a prosperare nel Caspio sia il povero gill-man de Il mostro della laguna nera, dal film di Jack Arnold del 1954. Lontano dalle natie dolci acque amazzoniche, ma finalmente al sicuro dai sequel cinematografici, dalle follie di Hollywood e di un mondo che ama tenere in gabbia i suoi mostri.

    Ritornando alla realtà, occorre constatare come le condizioni della flora e della fauna del Mar Caspio siano andate deteriorandosi nel tempo. I pescatori dell'Astrakan lamentano un drastico calo di presenza dello storione, e la totale scomparsa di altre specie ittiche nell'area. L'industria della pesca appare in crisi, e l'equilibrio ecologico risulta turbato, sia dal crescente sfruttamento petrolifero che da fattori ambientali quali le recenti attività vulcaniche.
    Forse la missione dell'uomo-pesce Runan-shah è proprio quella di prendersi cura del proprio ambiente: una leggenda del mare che torna a incarnarsi come ammonimento, per una modernità che perde sempre più contatto con l'elemento naturale.

    Autore: Andrea Bonazzi - Data: 30 marzo 2005 - Fonte: english.pravda.ru


    Collegamenti mitici:

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    Paleoseti: Oannes. i primi dei scesi sulla Terra

    Da dove provenivano e chi erano i misteriosi dei spaziali che lasciarono la propria indelebile impronta nell’Oriente antico? Da Gerusalemme a Sumer al Mali le antiche cronache riportano dell’arrivo degli straordinari Oannes.

    Era comparso dal Mare Eritreo. Diceva di chiamarsi Oannes ed era un animale dotato di raziocinio; tutto il suo corpo era come quello di un pesce; aveva sotto la testa di pesce un’altra testa, e dei piedi umani, aggiunti alla coda di pesce. Anche la sua voce ed il linguaggio erano umani e articolati. E ancora oggi si venera la sua immagine.


    OANNES, IL DIO PESCE

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    Con queste parole lo storico babilonese Berosso descriveva, nel 275 a.C., una misteriosa creatura apparsa improvvisamente in Mesopotamia, uscita dalle acque per "istruire ed instradare" il barbaro genere umano. "Questo essere", raccontava Berosso, "non si nutriva mai ma parlava con l’uomo tutto il giorno; insegnava le lettere, le scienze, le arti. Aveva insegnato a costruire le case e a fondare i templi, a compilare le leggi, a distinguere i semi della terra e a raccogliere i frutti; aveva spiegato i principi della geometria e, in breve, aveva insegnato tutto quello che serviva a dare dei modi garbati e a rendere più umana la gente. I suoi insegnamenti erano così universali che, dopo allora, non fu aggiunto nulla per migliorarli.

    Quando tramontava il sole, l’essere si tuffava in mare ed attendeva tutta la notte nelle profondità marine, in quanto anfibio. Dopo di lui apparvero altri animali simili ad Oannes".

    VISITATORI COSMICI

    Chi o cosa era veramente il misterioso essere descritto da Berosso più di duemila anni fa?
    Una creatura fantastica e leggendaria cui attribuire l’improvvisa evoluzione della società umana, o, come affermano molti ufologi, un visitatore spaziale in missione sulla Terra? Di quest’ultima idea è lo studioso tedesco Ulrich Dopatka, che non fatica a vedere nel "corpo di pesce" il ricordo deformato di una tuta spaziale anfibia. "Oannes", racconta Dopatka, "è un nome che in siriano antico significa "lo straniero".

    Questo straniero comparve simultaneamente nel Golfo Persico e nel Mar Rosso. L’Oannes babilonese fu solo il primo di dieci, comparsi nel Mare Eritreo, il tratto di mare comprendente il Golfo Persico, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Berosso chiamava questi esseri "Annedotoi", "i ripugnanti", e l’orrore che questi esseri suscitavano nella gente del luogo è un indizio della veridicità di quanto è stato tramandato. La nostra reazione alla visita di un extraterrestre non sarebbe forse uguale?".

    "Gli Oannes", prosegue Dopatka, "avevano ognuno un nome specifico, come Odakon, Euedokos, Eneugamoo, Eneuboulos e Anementos. Dal filologo egizio Elladio sappiamo che Oannes era "sbarcato da un uovo luminoso precipitato in mare", molto simile ad un disco volante. Nella mitologia sumera egli era spesso identificato con il dio Eridu, il signore delle onde, e a lui era dedicata la stella Canopo, da cui si diceva provenisse".

    IL CULTO DEL DIO ANFIBIO

    A conferma della realtà di questi eventi occorre sottolineare che il culto dell’uomo pesce dei sumeri era anticamente diffuso in tutto il Medioriente. Oannes era venerato presso i filistei con il nome di Dagon, mentre i Dogon del Mali, nell’Africa Nera, lo chiamavano "il Nommo", il dio anfibio. Il ricordo delle sue imprese sopravvisse persino nella cultura monoteista ebraica al punto che, secondo il vangelo apocrifo "Atti di Pilato", quando Gesù entrò in Gerusalemme come inviato divino, il popolo lo acclamò come "Oannes che vieni dall’alto dei cieli" (frase passata alla storia, per un errore di traduzione dall’ebraico, nella versione distorta "Osanna nell’alto del cieli").

    Di quest’ultima interpretazione si dice convinto, oltre all’ignoto compilatore del vangelo sopra citato, anche lo studioso ebraico contemporaneo Hayym ben Yehoshua, secondo cui Gesù, il ‘pesce’ secondo l’iconografia cristiana, e molti grandi mistici del passato sarebbero stati degli Oannes "avatar", cioè degli inviati divini mandati a salvare l’umanità. Senza arrivare a questi estremi, è curioso notare come nei vangeli apocrifi, cioè in quei testi ebraici e mediorientali a sfondo biblico non riconosciuti dalla Chiesa, si accenni ripetutamente agli Oannes.

    OSANNINI E VIGILANTI

    Il primo a parlarne è il patriarca biblico Enoch, "rapito in cielo da un vento impetuoso e portato in una Grande Casa di cristallo, alla presenza dei Figli dei Santi", gli Osannes o Osannini.

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    Ecco come è descritto quello straordinario incontro antidiluviano, nella versione etiope del "Libro di Enoch" (II-I sec. a.C.). "I loro abiti erano bianchi e i loro volti trasparenti come cristallo", scrive Enoch. "Essi mi dissero che l’universo è abitato e ricco di pianeti, sorvegliati da angeli detti Veglianti o Vigilanti; e mi fecero vedere i Capitani e i Capi degli Ordini delle Stelle. Mi indicarono duecento angeli che hanno autorità sulle stelle e sui servizi del cielo; essi volano con le loro ali e vanno intorno ai pianeti".

    Dai misteriosi "Figli dei Santi" Enoch apprende che lo spazio è controllato da due specie di angeli. I primi sono creature tipicamente bibliche, esseri di luce superiori all’uomo per natura e per saggezza, in diretto contatto con l’Altissimo; sono chiamati Cherubini, Serafini e Osannini e sono soliti fornire messaggi rapendo in cielo le persone o, come precisa una versione slava del Libro, "penetrando in camera da letto". I secondi, detti Veglianti o Vigilanti, sono una razza decaduta che il "Libro di Enoch" definisce "un tempo santi, puri spiriti, viventi di vita eterna, contaminatisi con il sangue delle donne", padri di una stirpe di "giganti, esseri perversi chiamati spiriti maligni", sterminati dal diluvio.

    Circa questi ultimi non si può fare a meno di notare come il loro nome, Veglianti o Vigilanti, risulti identico ai "Watchers", i rapitori Grigi che penetrano in camera da letto.

    CONOSCENZE PERDUTE

    Gli Osannes dimostrano di conoscere molti grandi segreti dell’universo, specie per quanto riguarda la cartografia stellare. "Mi mostrarono le stelle del cielo", scrive il patriarca. "Vidi come venivano pesate a seconda della loro luminosità, della loro lontananza nello spazio e del giorno della loro comparsa", quindi con i medesimi sistemi della moderna astronomia. Della validità delle cognizioni astronomiche degli Oannes si sono detti convinti, nel libro "Vita intelligente nell’universo" (Feltrinelli, 1980) anche gli astronomi J.

    Shklovskij e Carl Sagan (quest’ultimo è in seguito diventato uno scettico d’ufficio, per comodo). "Perché escludere la possibilità di un evangelismo extraterrestre?", scrivono di due. "C’è un sigillo cilindrico sumero che mostra il nostro sole con attorno nove pianeti.

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    Da dove avevano attinto quest’informazione i sumeri, se non dagli Oannes? Leggende di questo tipo meritano uno studio critico molto approfondito, e la possibilità di un contatto diretto con una civiltà extraterrestre deve essere tenuta presente come una fra le molte interpretazioni alternative". Conoscenze altrettanto straordinarie fanno parte del patrimonio religioso dei Dogon,
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    una tribù del Mali negli anni Trenta ferma all’età della pietra. Avvicinati dall’etnologo francese Marcel Griaule più di sessant’anni fa, i Dogon, una volta superata la diffidenza, svelarono di custodire profondi segreti scientifici, rivelati nella notte dei tempi da otto "Nommo" scesi sulla Terra.

    Secondo quanto rivelato a Griaule dallo stregone Ogotemmeli, i Nommo erano delle creature acquatiche mandate sul nostro pianeta dal dio Amma per istruire gli uomini. Sbarcati da una strana macchina fragorosa, gli dei avevano detto di provenire da "Potolo, una stella fatta della materia più pesante dell’universo". Durante il loro viaggio i Nommo avevano incrociato un pianeta con molti anelli (Saturno), uno con molte lune (Giove) ed uno, satellite della Terra, morto e disseccato. Dai Nommo i primitivissimi Dogon impararono a costruire dei santuari cosmici orientati verso Venere e ad intrecciare canestri che, una volta srotolati, risultano essere delle mappe stellari della Via Lattea. Marcel Griaule apprese che i Dogon conoscevano la rotazione della stella Sirio, da cui provenivano i Nommo, e della sua compagna Sirio B.

    Quest’ultimo dato ha stupito molto i ricercatori, in quanto negli anni Trenta i moderni telescopi non avevano ancora scoperto la "compagna invisibile" di Sirio, una nana bianca pesantissima ("fatta della materia più pesante dell’universo"), invisibile ad occhio nudo. Un’informazione, quest’ultima, che una cultura ferma all’età della pietra non poteva assolutamente conoscere. A meno di averlo saputo dagli dei.

    Contesto originale:
    http://www.notizieufo.com/oann.htm


    Oannes: un'interpretazione allegorica del mito

    OANNES

    (Bab.) - Musarus Oannes, l'Annedotus, noto attraverso le "leggende" Caldee trasmesse da Beroso e da altri scrittori antichi, come Dag o Dagon, "l'uomo pesce". Era una divinità Babilonese alla quale veniva attribuito il primo incivilimento dell'Assiria e della Babilonia : era un istruttore ed un riformatore. Arrivando dal mare di Eritrea, uscito dall'uovo primitivo sotto forma di mezzo uomo e mezzo pesce, portò loro la civiltà, le lettere e le scienze, il diritto, l'astronomia e la religione, insegnò ad essi l'agricoltura, la geometria e le arti in generale.

    Dopo di lui vi furono altri cinque Annedoti (poiché la nostra razza è la quinta) - "tutti simili ad Oannes nella forma esteriore, tutti insegnando la stessa cosa". Ma Musarus Oannes fu il primo ad apparire e lo fece durante il regno di Ammenon, il terzo dei dieci Re antidiluviani la cui dinastia terminò con Xisuthrus, il Noè Caldeo.
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    (Vedi "Xisuthrus").
    Oannes era "un animale dotato di ragione ... il cui corpo era quello di un pesce, ma che aveva una testa umana sotto quella di pesce, ed anche dei piedi simili a quelli di un uomo, congiunti alla coda del pesce, e la cui voce ed anche il linguaggio erano articolati ed umani. (Polistore e Apollodoro).

    Questo dà la chiave dell'allegoria. Ci mostra Oannes come un uomo e come un "sacerdote", vale a dire un Iniziato. Layard dimostrò molto tempo fa (Vedi Niniveh) che la testa di pesce era semplicemente un copricapo, la mitra portata dai sacerdoti e dagli dei, tagliato con la forma di una testa di pesce, così come, senza molte modifiche, la vediamo ancor oggi sulla testa dei grandi Lama e dai Vescovi di Roma.

    Osride portava una mitra identica. La coda di pesce è semplicemente lo strascico di un lungo rigido mantello, come dipinto in alcune statuette Assire, la cui forma si può vedere riprodotta nell'ornamento di panno dorato portato durante il servizio dai sacerdoti Greci moderni. Questa allegoria di Oannes, l'Annedotus, ci fa pensare al "Drago" ed ai "Re-serpenti";

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    i Naga che nelle leggende Buddhiste istruiscono il popolo nella saggezza, sui laghi e sui fiumi, e che finiscono per convertirsi alla Buona Legge e diventare degli Arhat. Il significato è evidente. Il "pesce" è un simbolo antico e molto suggestivo nel linguaggio dei Misteri, come d'altronde lo è l'"acqua". Ea o Hea era il dio del mare e della Saggezza ed il serpente di mare è uno dei suoi emblemi, essendo i suoi sacerdoti "serpenti", ossia Iniziati.

    Si può così comprendere perchè l'Occultismo ponga Oannes e gli altri Annedoti nel gruppo di quegli antichi "adepti" che furono chiamati "draghi marini" o "draghi d'acqua" - Naga. L'acqua tipicizza la loro origine umana (e come tale è un simbolo della terra e della materia, ed anche di purificazione), a differenza dei "Naga del Fuoco" o immateriali, Esseri Spirituali, Bodhisattva o Dhyani Planetari, considerati anche come gli istruttori dell'umanità. Il significato nascosto diventa chiaro all'Occultista una volta che gli vien detto che "quest'essere (Oannes) era solito passare il giorno fra gli uomini, istruendoli, e che quando il Sole era tramontato, si ritirava di nuovo nel mare, trascorrendo la notte negli abissi", perchè egli "era anfibio", cioè apparteneva a due piani: quello spirituale e quello fisico.

    Difatti la parola Greca amphibios significa semplicemente "vita su due piani", da amphi "su due lati" e bios "vita". La parola era spesso applicata nell'antichità a quegli uomini che , sebbene conservassero ancora una forma umana, si erano resi quasi divini attraverso la conoscenza che possedevano, e che vivevano sia nelle regioni spirituali supersensorie, che sulla terra. Oannes è fievolmente riflesso in Giona ed anche in Giovanni, il Precursore, entrambi collegati al Pesce ed all'Acqua. Il Dio della Saggezza e della Profondità che, secondo Hibbert, si identificava con il Babilonese Ea, colui che insegnò ai Babilonesi l'arte della scrittura. È simile a Matsya, che per gli Indù è il pesce Avatara di Vishnu.

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    Una interpretazione della figura del Nommo nella Cultura Africana

    La cultura africana è permeata ancora oggi dalla figura primordiale dei Nommo che rappresentano delle entità superiori che vengono invocate come noi invochiamo i nostri Dei. Queste figure o entità si ritrovano soprattutto in zone interne dell’Africa ancora non raggiunte dalle conversioni monoteiste islamiche o cristiane. Spesso anche persone che professano pubblicamente tali religioni monoteiste quando hanno veramente bisogno di un aiuto soprannaturale si rivolgono ancora al Santone o Sacerdote del Villaggio per invocare i Nommo, signori dell’Universo, dispensatori di ogni bene.

    Tali manifestazioni non sono pubblicamente confessate, dato che le religioni monoteiste sono diventate ormai da 40 anni religioni di stato imposte.
    Il Nommo può essere anche una figura singola o astratta e considerato custode dei valori spirituali di ogni creatura vivente e donatore di vita. Il Nommo, nell'area del Rwanda non è stato materializzato in un oggetto di culto (animale o vegetale o inerte) ma conserva la sua potenza creatrice, che viene data in esercizio al solo Muntu, vero artefice di tutto. Il Nommo può essere considerato l'essenza divina riversata nell'uomo. Mentre il Dio supremo esiste ed è considerato irraggiungibile, ci sono una serie di divinità minori, di spiriti, gli stessi antenati, e anche viventi visibilmente dotati di poteri non comuni (stregoni, guaritori, saggi), che vengono elevati a ranghi superiori ed hanno la capacità di infondere, in modo particolareggiato, il Nommo all'uomo.

    Il culto dei Nommo si è propagato per millenni mantenendo intatti i suoi valori originari poiché la cultura africana ha usato l’oralità come mezzo di trasmissione dei suoi valori fondamentali. Ogni Sacerdote del villaggio ha trasmesso al Sacerdote che lo avrebbe sostituito alla sua morte solo oralmente le sue conoscenze, mascherate nei riti religiosi. In questo modo è stata preservata la verità originaria anche dopo millenni. In altre parole la trasmissione tramite la scrittura può essere manomessa da eventuali istituzioni per proprio tornaconto alterando i concetti originari come è successo per la nostra cultura cosiddetta occidentale. In Africa permangono invece, per ora, ancora antichissime tradizioni o riti che si ricollegano forse ad avvenimenti avvenuti diverse migliaia di anni fa e che ci possono ricondurre alla prima civilizzazione dell’umanità.

    Per questo motivo penso sia interessante conoscere più a fondo il significato nascosto della figura dei Nommo , le sue rappresentazioni e prerogative.
    Una possibile spiegazione è quella riportata nel libro di R. Temple Il Mistero di Sirio ed PIEMME. In questo libro vengono riportate le straordinarie conoscenze astronomiche che la popolazione dei Dogon, nel Mali, ha tramandato da millenni.
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    Essi conoscono che il sistema stellare di Sirio è formato in effetti da tre stelle: Sirio A, Sirio B, e Sirio C . La prima visibile ad occhio nudo, la seconda , poco visibile e solo con un potente telescopio e la terza, Sirio C completamente invisibile e scoperta solo recentemente nel 1995 da astronomi francesi Benest e Duvent mediante studi sulle perturbazioni stellari.

    Quindi questi studi hanno confermato le conoscenze dei Dogon riportate da Temple nel 1976, e accolte allora da diversi "accademici" con molto scetticismo. Questa clamorosa conferma ha reso anche verosimile tutte le altre conoscenze astronomiche che i Dogon conoscono. Ma la cosa più sorprendente è la spiegazione che i Dogon danno alle loro avanzate conoscenze astronomiche dicendo semplicemente che sono state rivelate a loro dai Nommo che sono discesi sulla Terra per civilizzarla. Questi Nommo provenivano dal sistema Siro e sono descritti dai Dogon come esseri anfibi e rappresentati come Pesci. Questa rappresentazione di antiche divinità come esseri anfibi le ritroviamo in tutte le antiche civiltà del mediterraneo e anche in Asia.

    Cronologicamente la più antica descrizione di entità superiori mezzo uomo e mezzo pesce appare nella civiltà Babilonese e descritta da Berosso, noto storico del Tempo di Alessandro Magno, che definiva questi esseri anfibi Annedoti ( che significa ripugnanti) e che avevano portato le prime conoscenze per sviluppare una civiltà. Il supremo rappresentante di questi esseri anfibi si chiamava Oannes, raffigurato in numerosi monumenti tuttora conservati in vari musei.

    Ricordiamoci che anche i Filistei adoravano una divinità chiamata Dagon e rappresentata come un Pesce. Anche i primi cristiani rappresentavano il loro Dio con il simbolo del Pesce.
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    Quindi si può dedurre che i Dogon e anche le altre popolazioni africane menzionate provenivano da queste antiche culture del Mediterraneo e che hanno mantenuto finora conoscenze che nelle altre civiltà sono scomparse probabilmente cancellate da istituzioni che preferivano non conservare queste vere origini. Ma le rappresentazioni dei Nommo come Pesci si ritrovano anche in altre zone dell’Africa.

    Si ritrovano in villaggi all’interno del Ghana ed in queste zone queste entità anfibie sono descritte come entità femminili e rappresentate come Sirene. Ritroviamo queste rappresentazioni anche in alcuni villaggi all'interno del Ruanda che si trova molto distante dal Ghana e dal Mali per cui si può supporre che anche le conoscenze collegate ai Nommo si possono ritrovare in tutte quelle zone dell’Africa dove la cultura occidentale non ha manomesso ancora le culture locali basate sulla tradizione orale.

    Molto probabilmente solo i Santoni o Sacerdoti di sperduti villaggi mantengono segrete queste loro conoscenze occultate nei loro riti e tramandati solo ai loro adepti più fidati per osservare il dovere della segretezza e probabilmente non immaginando quanto possa essere importante per molti di noi conoscere le Vere nostre origini e buttare tutte le falsità che ci hanno volutamente fatto credere.
    Penso che una più attenta analisi di queste culture possa aiutarci a svelare il mistero della nostra esistenza e prepararci ad una nuova era di Verità.

    FONTE : http://arcanae.splinder.com/archive/2005-05


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    Edited by PoliceLC - 17/5/2008, 17:29
     
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    Misteri extraterrestri in Tibet?

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    I dischi di Baian Kara Ula

    Poco prima della seconda guerra mondiale, un gruppo di archeologi cinesi si imbatterono in una caverna contenente una quantità di piccoli scheletri e di dischi di pietra, che furono decifrati solo vent'anni dopo. Questi dischi raccontavano la storia di un'astronave extraterrestre malamente atterrata nella zona montagnosa di Baian-Kara-Ula 12.000 anni fa. I giornali occidentali presero la notizia come "propaganda comunista", ma un operatore turistico tedesco ha confermato la storia: i dischi esistono.

    Lentamente, le montagne di Baian-Kara-Ula, lungo il confine Cina-Tibet, iniziarono a rivelare i loro segreti agli archeologi. Gli scienziati scoprirono una intricata rete di gallerie interconnesse. In una di queste apparvero, ordinatamente allineate, le tombe di una razza che appariva alquanto particolare: esseri umani di dimensioni molto minute, eccetto i teschi, sproporzionatamente grandi.

    All'inizio, gli scienziati credettero che le grotte fossero tane di scimmie; ma il loro dirigente, il professore di archeologia Chi Pu Thei, sottolineò di non aver mai sentito parlare di scimmie che inumano i loro morti. Durante il disseppellimento dei corpi, un archeologo recuperò un disco di pietra dal fondo di una fossa. Gli studiosi si raccolsero attorno all'artefatto, rigirandolo in ogni direzione, cercando di capirne il significato. Un foro circolare nel mezzo, e una spirale incisa verso l'interno o l'esterno, comunque la si volesse guardare, erano le uniche apparenti caratteristiche.

    Un'ispezione più accurata mostrò che le scanalature, in realtà, erano una linea di piccole incisioni o segni. Ogni disco poteva quindi essere un "libro litico" ma, all'epoca della scoperta, nel 1938, nessuno possedeva un dizionario capace di interpretarlo. Tutti i dischi vennero raccolti insieme agli altri reperti ritrovati nell'area e non si vide ragione di considerarli speciali, erano solo bizzarri.

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    I dischi vennero conservati a Pechino dove, per i successivi vent'anni, un grande numero di esperti cercarono di interpretarli, ma inutilmente. Solo nel 1962 il Prof. Tsum Um Nui finalmente vi riuscì, e apprese l'incredibile messaggio contenuto nei dischi. Egli annunciò le sue scoperte ad un piccolo gruppo di amici e colleghi, ma il grosso pubblico sarebbe stato sempre tenuto, deliberatamente, all'oscuro, in quanto le autorità ritennero più prudente non annunciare le scoperte del professore, al punto che l'Accademia di Preistoria di Pechino gli proibì di pubblicare qualunque notizia in merito (un cover-up "made in China").

    Solo dopo due anni di totale frustrazione, il professore e quattro suoi colleghi furono autorizzati a pubblicare il risultato della loro ricerca, che chiamarono "Rapporto su un'astronave che, come riportato sui dischi, discese sulla Terra 12.000 anni fa.

    I dischi trovati nella grotta, 716 in tutto, raccontavano la storia degli abitanti di un altro mondo bloccati sulle montagne di Baian-Kara-Ula. Le intenzioni pacifiche di questi esseri non furono compresi dalla popolazione locale. Molti di loro vennero inseguiti e uccisi dai membri della tribù Han, che vivevano nelle grotte vicine.
    Il professor Tsum Um Nui lesse alcune righe della sua traduzione: "I Dropa sbucarono dalle nubi con i loro aeroplani. Prima dell'alba i nostri uomini, donne e bambini si nascosero nelle grotte per dieci volte. Quando alla fine capirono i segni del linguaggio dei Dropa realizzarono che i nuovi arrivati avevano intenzioni pacifiche..."

    Un'altra parte del testo dice che gli Han furono dispiaciuti che i Dropa fossero precipitati in quella zona impervia e che non fossero in grado di costruire un nuovo veicolo per tornare al loro pianeta. Ma i colleghi, totalmente increduli, derisero Tsum Um Nui e tale atteggiamento indispettì il professore che decise di trasferirsi in Giappone dove morì qualche anno dopo.

    Dopo 25 anni altri archeologi raccolsero nuovi elementi sul sito dove era stata effettuata la scoperta in base ai quali la storia, come appariva nella traduzione di Tsum Um Nui, poteva risultare corretta. Leggende, che ancora circolavano a quel tempo, parlavano di uomini bassi, senza capelli, di colorito giallo, che "erano discesi dalle nubi molto tempo prima". Quegli esseri avevano grosse e nodose teste su piccoli corpi ed erano mostruosi a vedersi, secondo gli abitanti locali che li avevano inseguiti a cavallo. La loro descrizione coincideva con le caratteristiche dei corpi che il professor Chi Pu Thei recuperò nel 1938.

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    All'interno delle grotte furono trovate pitture murali che indicavano il sorgere del Sole, la Luna, stelle non identificate e la Terra, tutte interconnesse da linee punteggiate. I dischi e i contenuti delle grotte furono datati a circa 10.000 anni prima di Cristo. Le grotte erano ancora abitate da due tribù che si autodefinivano Han e Dropa, questi ultimi alquanto strani. Alti a malapena un metro e trenta, non erano né cinesi né tibetani e gli esperti brancolavano nel buio in merito all'individuazione del loro ceppo etnico.

    Il rapporto sulla traduzione dei dischi, pubblicato nel 1964, non avrebbe segnato la fine di questo mistero, infatti altri privati ed organizzazioni di ricerca se ne stavano interessando. I dischi furono esaminati da scienziati sovietici, che dopo aver rimosso parti di "sporcizia" e condotto analisi chimiche, rimasero di stucco nel constatare che i dischi contenevano quantità piuttosto alte di cobalto e di altri metalli.

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    Furono quindi messi in rotazione su una macchina simile ad un fonografo. Attivato il dispositivo, i dischi "vibravano" o "ronzavano" come se una carica elettrica passasse attraverso il disco ad un ritmo particolare o che, come disse uno scienziato sovietico, "essi facessero parte di un circuito elettrico". Era la prova che, in qualche modo, un tempo i dischi erano stati esposti ad elevate cariche elettriche.

    Poco dopo la decifrazione di Tsum Um Nui, alla fine degli anni '60, esplose la rivoluzione culturale in Cina, e nessuno si occupò più di quei dischi e del loro messaggio. Nel 1974 l'ingegnere austriaco Ernst Wegerer si imbatté in due dischi nel Museo Bampo di Xiang e li fotografò.
    Fu però Hartwig Hausdorf, nel marzo 1994, a cambiare la situazione. Assieme all'amico Peter Krassa partirono per la Cina alla ricerca dei dischi. Tra mille difficoltà - il direttore del museo, a causa della foto concessa a Wegerer era stato destituito e i dischi erano stati rimossi dalle sale del museo, ma l'ostinazione di Hausdorf, arrivato fino in Cina per quei dischi, infine vinse, ma gli fu mostrata solo una copia ingrandita di quei dischi.

    Raccolsero anche la storia di un inglese, il Dott. Karyl Robin-Evans, a cui avevano mostrato un disco in pietra che credeva fosse stato trovato in Nepal. Il disco aveva il raggio di 12 centimetri e lo spessore di 5 centimetri. Il professore aveva posto il disco su una bilancia-registratore, che mostrava come nello spazio di tre ore e mezza il disco, apparentemente, guadagnava e perdeva peso. Come poteva un disco di pietra cambiare peso?

    Robin-Evans si mise allora in viaggio verso le montagne della Cina, alla ricerca della tribù Dzopa.
    La regione di Baian-Kara-Ula non aveva risentito molto dell'invasione cinese. Robin-Evans riuscì a raggiungere la meta e a guadagnarsi la fiducia della gente Dzopa. Aveva con sé un linguista, che gli insegnò i rudimenti della lingua Dzopa e Lurgan-La, il capo religioso degli Dzopa, gli raccontò la storia della sua tribù, il cui pianeta natale si trova nel sistema di Sirio. Lurgan-La gli spiegò che due missioni erano state inviate sulla Terra, la prima 20.000 anni fa, la seconda nel 1014 prima di Cristo. Durante quest'ultima visita alcune astronavi precipitarono e i sopravvissuti non furono più in grado di lasciare la Terra: gli Dzopa erano i discendenti diretti di questa gente.

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    Tra i beni di Robin-evans vi era un'incredibile fotografia: La coppia reale Hueypah-La e Veez-La. Erano alti rispettivamente 1,2 e 1,07 metri! Non solo le loro dimensioni corporee erano inusuali, ma lo era anche la loro fisionomia. Era importante pure stabilire se i "Dropa" e gli "Dzopa" costituissero una sola tribù oppure appartenessero a nuclei diversi, una controversia di cui Robin-Evans sembrava fosse al corrente. Sebbene il termine "Dropa" rappresentasse la corretta sillabazione, "Dzopa", o piuttosto "Tsopa" era più vicino alla pronuncia esatta della parola.

    Restavano due problemi: la datazione dei dischi di pietra, 12.000 anni fa, non coincideva con le affermazioni del capo religioso: 20.000 anni fa e 1014 anni prima di Cristo. E inoltre, i dischi sembravano contenere descrizioni contraddittorie: parlavano di individui appartenenti alla tribù Dzopa nel riferirsi ai Dropa e i dischi erano stati scritti dai Dropa. Forse alcuni locali si mescolarono ai Dropa? O le informazioni furono in qualche modo alterate? Sebbene Hausdorf, Krassa e Robin-Evans non sono stati in grado di spiegare queste contraddizioni, altri ricercatori potranno contribuire a chiarire gli aspetti ancora oscuri di questo caso. Hausdorf è stato comunque in grado di provare che i dischi di pietra e la tribù Dzopa sono realmente esistiti. E questa storia potrebbe portare a nuove più importanti scoperte.
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    La grotta misteriosa

    Un'altra curiosa vicenda, che riguarda la regione in questione, viene narrata nel libro "La caverna degli antichi" (Ediz. Ubaldini - 1976) il cui autore, il monaco tibetano Lobsang Rampa Chakpori, racconta che molti anni prima un altro Lama, il maestro Dondup Mingyar, gli aveva rivelato l'esistenza di una grotta straordinaria, ricca di congegni misteriosi, occultata tra le montagne tibetane.

    Il maestro Mingyar, nel libro, racconta così la sua esperienza: "… ero con altri tre Lama e stavamo esplorando alcune catene montuose tra le più remote, allo scopo di scoprire la causa di un forte boato udito qualche settimana prima. Perlustrando le vette circostanti, individuammo una grande crepa molto profonda che immetteva in una 'caverna degli antichi'. Penetrammo tutti e quattro nella crepa e dopo alcuni metri notammo che una debole luce argentea, mai vista prima, illuminava un'ampia ed enorme sala, come se la montagna fosse vuota. Mentre avanzavamo constatammo con grande stupore che la luce argentea illuminava anche degli apparecchi e altri meccanismi strani. Alcuni di questi si trovavano dentro dei contenitori di vetro, mentre altri si potevano toccare.

    Così cominciammo tutti a ispezionare questi strani macchinari e l'immensa sala, attraversando porte che si aprivano e si chiudevano automaticamente, mentre le apparecchiature sembravano illuminarsi o entrare in azione al nostro passaggio. In una di queste macchine si trovava uno schermo (molto simile ad un odierno televisore), dove il gruppo poteva rivedere, registrati, alcuni episodi di vita della civiltà perduta degli 'antichi'. Questo è quello che vedemmo e sentimmo. Una civiltà evoluta, esistita migliaia e migliaia di anni fa, che poteva volare nel cielo e costruiva apparecchi che imprimevano pensieri nella mente di altre persone. Possedevano armi atomiche e infatti una di queste esplose e distrusse quasi tutto il mondo. Alcuni continenti sprofondarono sotto le acque ed altri ne emersero"...

    Visitatori dallo spazio

    Dopo molti anni il Prof. Tsum Um-Nui, con grande coraggio, nonostante il divieto delle autorità militari e politiche, in un'apparizione pubblica rese noto il resoconto dei suoi studi e delle traduzioni dei geroglifici.

    Ecco uno stralcio della sua relazione: "Da un pianeta lontano 12.000 anni luce giunsero un giorno delle astronavi. Atterrarono in Tibet con gran fragore, dieci volte, sino al sorgere del Sole. Gli uomini, le donne ed i bambini (terrestri) si rifugiarono nelle caverne. Questi viaggiatori vennero chiamati Dropa o Kham. Infine gli Umani compresero, dai segni e dal comportamento, che i visitatori venuti dal cielo avevano intenti pacifici e i Dropa poterono avvicinarli".

    Quando il Prof. Tsum Um-Nui morì per un attacco cardiaco nel 1965, i suoi eredi scoprirono che tutti i suoi appunti, frutto di anni di studio, erano spariti.
    Quanto ai dischi, ne riporta notizia per l'ultima volta l'ufologo viennese Peter Krassa, che nel 1975 li vide esposti, e li fotografò, in una teca del museo Bampo a Xian (Cina). Dopo, dei dischi di Bayan Kara Ula si è persa ogni traccia.


    FONTE: (1)xoomer.alice.it
    (2)isolachenonce-online.it (stralcio)


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    Edited by ROS533 - 20/5/2008, 22:49
     
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    Islam dei segreti...

    La mitologia protoaraba è ricca di riferimenti a esseri celesti dagli incredibili poteri, all’apparizione di luci nel cielo, alla presenza di manufatti tecnologici dalle magiche proprietà.

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    La fortezza di Bam.

    La paleoastronautica ha il merito di porre l’attenzione in una diversa ottica su culture minoritarie antiche. L’attenzione è però sempre rivolta ai casi classici come i Maya, l’Egitto e Palenque. Una cultura come quella islamica e araba sembra non interessare, nella convinzione errata, retrograda ed estremamente conservatorista su certi argomenti.
    Il rapporto tra UFO e arabi è in realtà sempre ben stretto.

    La cultura islamica teoricamente non pone problemi all’esistenza di una realtà parafisica, come dimostrano i versi del Corano sul mondo parallelo all’uomo dei Jinn, esseri a metà fra Dio e l’umanità. Ma fin dai tempi pre-islamici abbondano le citazioni di antiche tecnologie presso gli arabi.

    G. Mandel ne "Il regno di Saba, ultimo paradiso archeologico" riporta le tradizioni leggendarie sud-arabiche antiche e islamiche di armi misteriose come laser e atomiche nello Yemen, insieme a tradizioni remote di guerre straordinarie combattute con regni africani e asiatici come il Tibet (ricordi di Atlantide e Mu?).

    Sulla base di raffronti artistici esistenti non è azzardato dire che la civiltà di Mohenjo Darjo, se ha affinità con quella sud-arabica, abbia trasportato le sue tecnologie aliene post-atomiche anche nello Yemen, il che spiegherebbe l’eccezionale architettura monumentale di dighe e templi di questa zona, stupefacente quanto quella egizia. Lat e Manat le dee della pietra, Quzah il dio della folgore, Az-Zun la venere araba insieme agli dei pietra, Ash-Shams e Jarrith dei astrali e i cinque giusti: le divinità politeiste preislamiche assomigliano pericolosamente alle varie deità aliene delle altre parti del mondo.

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    Raffigurazione di un Jinn.

    Jinn, Giganti e Grigi

    A riprova di queste influenze, nei monumenti archeologici dell’antica Arabia del sud si verificano strani fenomeni, come le fotografie non impressionate, modello Giardino di Boboli e i viaggi in astrale onirici con personaggi misteriosi di luce del passato.

    Nel deserto del Rub Al-Khali si nasconde, secondo i Muqarribun, maghi arabi, la città di Irem delle Colonne, edificata da Jinn e giganti Ad. Il dio Chthulu è presente nei testi magici arabi con il nome di Khadhulu simile alla Tiamat sumera chiamata Kutulu. Ed è presente l’Oannes babilonese, uomo pesce, nelle leggende delle creature anfibie del mare di Karkar. Può sembrare fantasia, ma la maggior parte del territorio della Penisola arabica è inesplorato a tutt’oggi.

    Il culto megalitico è evidente nelle divinità preislamiche. Testimonianze di esploratori dell’800 parlano di Cromlech colossali all’inizio del deserto siro-arabico, mentre le scoperte dei Tholos quasi nuragici dell’Hadramauth di Tosi e De Maigret ci riportano un’altra volta alla civiltà mondiale megalitica, con la presenza di antichi giganti.

    La teoria parafisica dei Jinn di Maometto sembra trovare conferma nelle rivelazioni del generale americano in Arabia Saudita citato da "Il Giornale dei Misteri" con i documenti segreti sui grigi infradimensionali che si spostano tramite il magnetismo, entità vampire e nemiche dell’umanità. E conferma giunge dal Golfo Persico, interessato dalle ruote di fuoco del mare connesse alle anomalie magnetiche (quasi sul modello del litorale abruzzese) già notato da Charles Fort. Un esempio di "rivelatore" ante litteram può essere considerato il Salomone del Corano, con il suo dominio totale sui Jinn.

    I JINN sono creature di Allah, e Allah h ha creati da una fiamma senza fumo, dopo gli angeli ma prima di Adamo degli animali, delle piante delle altre cose. I jinn sono spiriti invisibili, ma ugualmente vivono e muoiono, si sposano e si riproducono, hanno intelligenza e libero arbitrio, e possono dunque scegliere fra il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto, il bene e il male. Vivono ovunque, ma soprattutto nei deserti, nei luoghi in rovina, e in quelli più impuri, come tombe e letamai, e in quelle case dove entrando non si nomina con rispetto il nome di Allah.

    Questo dicono il Corano e la Sunna.
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    Mesopotamia.

    Piramidi abitate dai Nordici

    Passiamo all’epoca islamica. Già Peter Kolosimo ricordava le descrizioni di creature come gli alberi con molte teste (ingegneria genetica?), i luoghi ucronici non possibili che potrebbero, però, alludere ad esperienze di viaggio extraplanetarie e infradimensionali, modello Betty Andreasson. Ibn Battuta parla addirittura, nella sua Rihla, delle manopole sul muro capaci di far aprire porte enormi e spostare minareti, indizio di tecnologie evolute possedute dagli arabi. Il Romanzo di Alessandro Magno, con la ricerca della fonte della vita, introduce elementi del tutto contattistici, dal palazzo di gioielli, al pavone, all’uomo bicorne, come già notato da Z. Sitchin.

    Sotto Fes si dice ci sia un intero complesso di gallerie legate all’antica alchimia, simili agli altri esempi di America precolombiana e Tibet.
    Va ricordata la notizia di gallerie sotterranee sotto le Piramidi d’Egitto abitate da alieni di tipo nordico che starebbero collaborando segretamente con il governo egiziano. Biblioteche come Alessandria e Cartagine non sono state distrutte interamente dagli arabi nel Medioevo, come dimostrerebbero le tracce di antiche conoscenze alchimistiche e parafisiche di un Khalid Ben Yazid, califfo eretico, o di un Ibn Arabo che, con la sua teoria delle sfere del reale multiformi e concentriche, è il Giordano Bruno islamico. E nell’alchimia araba vi sono le tracce allegoriche di una fisica della materia sconosciuta e legata a misteriose civiltà preumane.

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    Le colonne del Tempio di Hatra.

    Moschee ed energie curative

    Fenomeni citati nel Corano, come il miracolo della Luna, sembrano ammiccare a manifestazioni B.V.M. anche nell’Islam. E negli anni ’70, come riportato da E. Von Daniken in "Messaggi dall’ignoto", la chiesa copta del Cairo di Zeytun assistette a un fenomeno simile, mai chiarito completamente.

    Le citazioni dei popoli preislamici, come gli Ud e i Thamud, sono simili ai miti dei giganti di tutto il mondo e costruzioni come Palmira andrebbero ascritte al megalitismo dei Nephilim di Barry Chamish.
    I frammenti di iscrizioni egizie, sparse per la città araba del Cairo, lasciano presagire uno schema esoterico di costruzione della stessa, sul modello della Bagdad circolare medievale con i relativi orientamenti astronomici modello Bauval-Gilbert. La stessa cupola delle moschee può essere considerata un accumulatore di energia basato sulle geometrie e topologie quantistiche al pari delle Piramidi.

    Mistici come Molla Sadra parlano nei loro viaggi iniziatici di descrizioni analoghe a quelle dei vari "revelators".
    Un esempio di contattismo parafisico è il Vecchio della Montagna e suoi assassini. L’altalena degli stati dell’essere dei Sufi anticipa le teorie della nuova fisica di Jack Sarfatti, mentre la loro influenza su governi del Medio Oriente è già un modello Cabal (vedi: Michael Wolf, "The Catchers of Heaven") e Majestic.

    La lampada di Aladino e altre immagini dalle Mille e una Notte tradiscono inconcepibili manufatti tecnologici di cui attualmente stiamo scoprendo i primi principi, come dimostrano le ricerche del cecoslovacco Pavlita. Tutta la sh’ia gnostica e tutte le sette segrete - dai Drusi, agli Alawiti, agli Ahl-i-Haqq - nascondono documenti segreti nelle loro biblioteche per iniziati, con allegorie e miti distorti di altre realtà sorprendenti, come riferito da Kamal Jumblatt, leader druso, ad A. Tomas, riguardo le stanze segrete sotto la Sfinge.

    Lo stesso Imam nascosto duodecimano rivela influssi di realtà infradimensionali e parafisiche che hanno interferito, connesse alla torre elicoidale di Samarra. Nelle narrazioni arabe abbiamo esempi di armi meteorologiche e soniche (la poesia che incita alla battaglia) che danno da pensare. Ancora oggi le tombe dei Marabutti nel Maghreb emanano misteriose energie curative connesse a manifestazioni ufologiche. Nell’800 le opere di un Gibran ci introducono un’altra volta a una dimensione parafisica, da comunità Damanhur.

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    Bassorilievo di un museo iracheno rappresentante una divinità Nephilim.

    Figure di fiamma

    Al giorno d’oggi abbiamo gli UFO nei cieli iraniani, che hanno interferito nella Guerra del Golfo, le sorprendenti rivelazioni del caso Guardian e le alleanze sotto banco con regimi arabi da parte di draconiani e grigi per sperimentare nuove tecnologie militari aliene. Non sono soltanto gli americani a firmare i patti scellerati. Le operazioni di soppressione delle informazioni sono oggi fortissime nel mondo arabo ad eccezione, forse, del Qatar, stato all’avanguardia per molte cose, come dimostra l’emittente eversiva Al-Jazeeria e sede di associazione UFO e dell’Iran delle prossime elezioni.

    Come si vede, una cultura da sempre disprezzata in Occidente, che si presuppone essere ostile a certi argomenti e fondamentalmente tradizionalista, riserva a un’attenta analisi piacevoli sorprese per il ricercatore. Basti pensare che, se affrontiamo la questione da un punto di vista teologico-islamico, Maometto, Angeli e Dio non possono essere ritratti e quindi le figure di fiamma dell’iconografia islamica possono essere benissimo ascritte agli esseri di luce delle manifestazioni ufologiche. Se non è apertura mentale questa...

    Marco G. Toma
    (1)


    FONTE: (1) edicolaweb.net
    (2) laportadeltempo.com



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    La Costellazione Del Drago riprodotta ad ANGKOR (Indocina)

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    Angkor in sanscrito significa "la Città", "la Capitale", ed è indubbio che fu eretta da esperti ingegneri idraulici che sapientemente tracciarono un sistema idraulico efficiente per mezzo del quale accumulavano acqua durante il periodo delle piogge monsoniche, quattro mesi all'anno, per utilizzarla nel periodo di siccità. Una rigorosa geometria di enormi bacini rettangolari costruiti con dighe, terrapieni, canali, serbatoi per la raccolta delle acque e la scacchiera delle risaie chiamati Baray.
    Angkor è un capolavoro avvolto dal mistero come lo è la sua estinzione. Inspiegabilmente la vita si è fermata come tutto si fosse tramutato in pietra, avvolta e nascosta poi da una lussureggiante vegetazione, evidenziandone il contrasto austero.

    Tutta l'Asia è ancora un continente che fa del mistero la sua essenza, stimola la fantasia lasciando immaginare angoli colmi di tesori dimenticati e perduti, alla mercé di uomini pervasi dal fascino dell'avventura.
    Sul territorio si contano cento santuari, alcuni dei quali raggiungono le dimensioni del tempio di Luxor in Egitto, distribuiti su ben 600 chilometri quadrati.
    Un impero abbandonato da un popolo preda di una follia costruttiva disinteressato delle cose umane.

    Il primo a fornire un resoconto di questo luogo fu a suo tempo Marco Polo alla fine del 1200 Ne parlò come di un centro religioso nel mezzo a una regione di risaie. Contò circa venti templi compreso il Bayon, descrivendolo con torri e tetti ricoperti di lamine d'oro, attualmente non più esistenti. Sui lati delle torri quattro facce gigantesche dagli occhi chiusi e un sorriso enigmatico e bonario.

    I bassorilievi rappresentano le storie di corte insieme ai motivi epici dell'India antica.
    Sono resoconti di una vita sfarzosa di un popolo libero di fare della satira, teso verso il progresso, ma in piena decadenza dovuta al prolungato momento di prosperità.
    L'arenaria usata per la costruzione del tempio proveniva da terre lontane venticinque chilometri e considerando il peso notevole e il mezzo di trasporto che poteva essere usato, si può presupporre che siano state impiegate notevoli forze lavoro. Venivano usati grossi blocchi di pietra non cementati fra loro, ma tenuti da morsetti di metallo, formati di rame, oro, argento colato direttamente nelle scanalature predisposte in precedenza nella pietra. Ciò rendeva necessario l'uso di un forno portabile capace di fondere i metalli e quindi un livello tecnologico di gran lunga superiore a quello immaginato. L'uso dei morsetti è visibile nelle pietre di Puma Punku a Tiahuanaco, a Ollantytambo, a Dendera e a Sarnat in India, provando che era un uso comune di una antica civiltà.

    Il dominio Kmer, che diede vita a tutto questo, fu di breve durata.
    Verso l'anno mille a.C. il territorio fu invaso dal Buddismo di Ceylon.
    Mentre in Europa si commentava l'operato di Carlo Magno, nell' 802 iniziava in Indocina, con Giayavarman, iI il momento d'oro dei Kmer. Recenti ricerche hanno stabilito che il Bayon fu costruito nel 1181 e finito nel 1218.

    La storia di Angkor inizia nell'anno 802 con Jayavarman II, che la edifica sull'altopiano del Kulen, unificando il popolo in una comunità religiosa e politica, che assimila le influenze della civiltà indiana.
    Il Phom Kulen è tra le poche alture che dominano la regione del Siem Reap, che offre immense e fertili estensioni alluvionali con corsi di acqua perenni. Vi è un lago tra i più pescosi del mondo, il Tonle Sape, oltre a ricche foreste con cave di arenaria e miniere di ferro.
    Qui, sulla riva settentrionale del lago, viene fondata la capitale fornendola di una meravigliosa rete irrigua.

    Di Jayavarman II è scritto che proveniva da una terra lontana, situata al di là del mare, ove aveva trascorso alcuni anni alla corte di un potente re conosciuto come il " Re della Montagna". REGNO DI AGARTHA???
    Alcune iscrizioni lo indicano come un discendente di una razza pura, come quella dei seguaci di Horus, che produssero quella dei faraoni: da non dimenticare la somiglianza fra i Maya e i Kmer, evidenziata da Michael Coc, esperto in materia.

    Jayavarman II, quando arrivò in Cambogia, stabilì la capitale nell'antichissima città di Indrapura, frequentato luogo di studi religiosi; in seguito si trasferì verso nord nella pianura, ove adesso si trova Angkor, e fondò Hariharalaya, indicata sulle carte come Roluos.

    Poi fu il tempo di Souryavarman II, che contribuì allo sviluppo di Angkor e fece erigere al centro del suo immenso impero la città santuario di Angkor Wat, considerata la più grande creazione architettonica di tutta l'Asia.
    Con la scomparsa di Souryavarman II si aprì un lungo periodo di declino: conflitti intestini e congiure di palazzo che minarono il regno, facilitando l'invasione e la conquista del vicino popolo dei Cham, i quali nel 1177 riuscirono a mettere a sacco la capitale.

    Dopo quattro anni di loro dominazione, Jayavarman VII riportò la Cambogia sotto l'amministrazione Kmer ristabilendo il suo dominio sull'intera Indocina.
    Il paese riprese vigore e si trasformò in una estensione di edifici sacri, di ospedali (si dice ne facesse costruire ben cento), di ricoveri per i viandanti, di steli ed iscrizioni per lodare il sovrano.
    L'arte Kmer raggiunse l'apice. Furono eretti il Bandeai Kdei, il Ta Prohm, il Preah Khan, con i loro labirinti che si addentravano nel cuore della foresta. Esplorazioni in loco hanno confermato l'esistenza di una vasta rete di passaggi sotterranei, di alcune decine di chilometri quadrati, la cui messa in opera non si può certo attribuire ai contadini cambogiani.

    Venne edificata anche la nuova capitale Angkor Thom; sull'antica traccia della città furono costruiti altri sedici chilometri di mura e cinque porte monumentali, il cui accesso era garantito da ponti con parapetti formati da 54 statue colossali, rappresentanti i demoni e le divinità intente a una specie di tiro alla fune con il sacro serpente Naga. Al centro della cinta muraria il Bayon con i 200 volti del Budda sorridente.

    Gli sforzi per raggiungere tutto questo sfarzo dissanguarono il paese e i successori di Jayavarman VII non riuscirono a lasciare traccia del loro passaggio.
    La caduta definitiva dell'impero avvenne nel 1431 con l'invasione siamese.
    L'immensa rete idrica, priva delle adeguate cure, andò in rovina. La terra non offrì i frutti necessari al sostentamento della popolazione che finì per disgregarsi.
    Le tribù Thai dell'ovest e il buddismo dell'est avanzarono verso Angkor; re Pona Yat decise di abbandonarla.
    Molti lo seguirono nel luogo ove oggi si trova Phon Pej e la foresta, che una volta aveva accolto quella civiltà, riprese il sopravvento, trasformando quel regno in un sepolcro.

    Analogie con l'Egitto

    Le ricerche hanno evidenziato che la causa della fragilità del popolo Kmer è al tempo stesso quella che ne ha caratterizzato la grandezza: il potere lasciato ad un solo uomo, il Re.
    Chiamato "Signore della superficie di qua sotto" era considerato un dio tra gli dèi, l'unico ordinatore del culto universale, possedeva tutti i poteri politici, economici e religiosi.
    Infatti i templi, non destinati ad accogliere i fedeli, erano stati eretti per gli Dèi e per i Re che venivano identificati con Visnù.
    Angkor Wat è il mausoleo di Souryavarman II mentre il Bayon è la tomba di Giayavarman VII.
    Si consacrava anche la vittoria del popolo con la natura, in un territorio dove per sei mesi la stagione era arida e occorreva contenere il corso impetuoso del Mekong, alimentato anche dalla pioggia dei monsoni.

    Le testimonianze dei viaggiatori ci parlano di un regno che la notte chiudeva le grandi porte di Angkor Thom per riaprirle al mattino, controllate da guardiani che impedivano l'ingresso in città a cani e criminali.
    Le dimore dei principi erano rivolte verso il punto ove sorge il sole. Il Bayon aveva al suo centro una torre d'oro con al fianco più di venti torri. Sul lato est un ponte d'oro con due leoni, anch'essi d'oro, su entrambi i lati.
    Ancora oggi ciò che rimane di questi magnifici e imponenti monumenti irradia quella antica luce che attirava milioni di credenti.

    Ufficialmente non si conosce niente riguardo alla preistoria dell'Indocina, quindi non siamo in grado di stabilire chi in effetti stimolò la costruzione dei templi di Angkor.
    West intravede legami con il popolo egizio, dal momento che per tale civiltà "Ankh Hor", oppure "Ankhor", assume il significato di "Horus Vive", oppure "Viva Horus".

    Le iscrizioni e i reperti archeologici fanno risalire la costruzione di Angkor tra l'802 a.C. e il 1220 d.C..
    I monumenti di Angkor, rappresentazioni in pietra dei miti Indù, sono tutti orientati con precisione agli effettivi punti cardinali, cosa che poteva essere compiuta solo da chi conosceva l'astronomia e le scienze geodetiche. È lecito quindi dedurre che vi sia un legame nascosto tra Giza e Angkor i cui elaborati presentano evidenti radici comuni.

    Non si può considerare casuale che Yama fosse, come Osiride, preposto al giudizio delle anime, coadiuvato come il dio egizio da personaggi a loro volta affini, Dharma con Maat, Chitragupta con Thoth.
    Gli studiosi sono convinti che si tratti solo di semplici coincidenze e che non vi possano essere collegamenti tra le due terre.
    La tradizione locale vuole che i templi e le piramidi di Angkor siano stati eretti da Visvakarna, l'architetto degli Dèi. Il primo architetto egizio è identificato con Imhotep, che inventò l'arte di tagliare le pietre e al quale si attribuisce il progetto di Saccara.

    È proprio in questo luogo che sono visibili opere murarie con motivi ornamentali composti da cobra dal cappuccio aperto, come quello presente ad Angkor.
    Forse è davvero solo coincidenza ma per entrambi i paesi il serpente poteva abitare sia in terra che in cielo. Così è scritto nei sacri libri.
    A questo punto esaminando templi e piramidi troveremo interessanti particolari che porteranno ad altrettante analogie.

    Calcoli astronomici

    Angkor Wat è composta da cinque recinti rettangolari, con i lati corti allineati verso nord est. Le misure dei quadrati, dei canali, della strada rialzata, evidenziano una cura estrema da parte dei costruttori. Suryavarman II lo fece erigere nel 1150 d.C. come suo tempio funebre.

    Si tratta dell'edificio più importante, orientato lungo un asse est ovest, classificato come edificio equinoziale al pari della Sfinge egizia; come la Sfinge guarda verso una costellazione che raffigura il Drago. Difatti Angkor Wat e altri quindici edifici si trovano nella stessa posizione delle stelle che formano il Drago.
    Nel 1150 d.C., pur trovandosi nella stessa posizione raffigurata in terra ad Angkor, le conformazione delle stelle del Drago si trovava al di sotto dell'orizzonte, per vederla al di sopra occorre risalire fino al 10.500 a.C..
    Tanto basta per trarre un po' di conclusioni.

    Se la piana di Giza un tempo segnava il meridiano "zero", il nostro attuale Greenwich, noteremo che Angkor si trova a 72° est. È ovvio a tal punto che in tempi remoti, forse molto più di quanto si creda, la civiltà esistente sapeva che una sfera poteva essere divisa in cinque spicchi di 72° l'uno, per un totale di 360°; e di conseguenza che la Terra era rotonda.
    Forse si trattava di una civiltà di navigatori che aveva potuto misurare il globo e suddividerlo in linee verticali e orizzontali, ossia i meridiani e i paralleli, e che quindi era in possesso di cronometri marini che fornivano la misura esatta della longitudine, che permetteva loro di disegnare precise carte geografiche.
    Una civiltà che certamente visse 12.000 anni fa e che volle ricreare in terra alcune costellazioni e segni zodiacali nella esatta posizione che occupavano nel cielo al loro tempo.

    Per questo adesso sappiamo che la Sfinge guardava ad est il suo segno zodiacale, il Leone; che le piramidi erano rivolte a sud verso Orione; che Angkor era orientato a nord verso il Drago. Recentemente è stato verificato che la piramide di Akapana a Tiahuanaco è orientata a ovest, e nel 10.500 a.C. verso quel punto si osservava l'Acquario, che la stessa piramide, con il suo complicato sistema di canali, intendeva riprodurre.
    Allora, come si usa dire, in pentola bolle qualcos'altro.

    Il 72 è un numero che fa parte del calcolo precessionale; Angkor Wat è in linea con l'alba dell'equinozio di primavera e quel giorno si può osservare, dalla strada rialzata, il sole sorgere sulla cima della torre centrale.
    Il drago è la raffigurazione del serpente Naga, il Re Cobra dalle sette teste, rappresentato sulla balaustra della strada rialzata con i cappucci aperti; è anche il serpente che Minerva scagliò nel cielo dopo averlo rubato ai giganti, ed è il cobra che, con le sue spire e le sue teste, protesse Budda dalla tempesta senza fine. Quel Re-serpente che faceva parte del gruppo di quei serpenti che governarono in terra, che "fecero pace con la quinta razza, l'ammaestrarono e l'istruirono".
    Osiride veniva descritto come un "grande Drago" sdraiato sulla sabbia che si trasformò in serpente quando scese nel mondo dei morti "in quanto Signore del Duat risiede in un palazzo le cui pareti sono formate da cobra vivi".

    Il Cobra dell'Egitto e gli uomini falco, gli Shemsu Hor, i seguaci di Horus, sono l'uomo uccello con la testa di aquila, Garuda, nemico dei serpenti, identificato con la costellazione dell'Acquario.
    E ancora, è Ananta, fra le cui spire dormiva Visnù in fondo all'oceano prima di riemergere per ricreare il nuovo universo, trovando in tal modo un'affinità con Atum e la Collina primordiale.
    E come il serpente rinnova periodicamente la sua pelle, è il momento del rinnovo, della rigenerazione del tempo, immortalati nei mille e duecento metri quadrati dei bassorilievi della galleria di Angkor Wat, che riproducono una parte della mitologia Indù nota come la "frullatura dell'Oceano", ovvero la "Precessione degli Equinozi".
    La stessa mitologia descritta nei libri sacri come il Ramayama e il Mahabharata che narrano di come Dèi e Demoni si unirono per compiere quell'azione conosciuta come frullatura al fine di conseguire l'immortalità.

    Asura e Deva

    Che la civiltà umana abbia avuto inizio molto tempo prima di quanto ipotizzato dalla scienza ufficiale e che in tale periodo in Mesopotamia, Egitto, Cina, India, nelle Americhe si conoscesse il meccanismo della precessione degli equinozi e quindi di tecnologie avanzatissime è scritto ampiamente nel libro "Il mulino di Amleto" (Adelphi); ove è descritto in maniera comprensibile che la precessione agisce in modo che le quattro costellazioni, ove sosta il sole nei solstizi e negli equinozi, ruotino lentamente in un determinato e ciclico periodo della durata di 29.650 anni.

    Sulle pareti di Angkor Wat viene simbolizzato questo movimento.
    Gli Asura e i Deva sono intenti a tirare le spire del serpente intorno al monte Mandera per facilitare il passaggio da un'epoca astrologica all'altra.
    Un demone asura tiene in tiro il re naga Vasuki, un cobra dalle cinque teste, come le cinque parti di 72° in cui è divisa la terra, aiutato da 85 demoni minori. Dalla parte opposta un Deva tira la coda aiutato da 85 Dèi minori; al centro, il cobra è legato a un monte, il Mandera, che poggia sulla tartaruga Kurma, mentre, sospeso sulla vetta, Visnù tiene il serpente con le mani.

    Esistono rilievi in Egitto che raffigurano Horus e Set mentre tirano i capi di una corda che gira intorno ad una specie di trapano al fine di farlo ruotare.
    Inoltre nel "Libro di ciò che è nel Duat" vi è un disegno che raffigura un monte dal quale emerge una testa di un dio; attorno al monte passa una corda tesa da due file di persone poste a entrambi i capi. Al di sopra della montagna un Omphalos, con ai lati due uccelli, simbolo usato dagli egizi per indicare i paralleli e i meridiani. Un chiaro indicatore di punti geodetici noto anche ad altri popoli, quali etruschi, sumeri, babilonesi libanesi greci.

    Nelle viscere del monte è visibile un ovale che ricorda la tartaruga di Visnù al cui interno un serpente a tre teste, chiamato il "grande Dio", porta sul dorso Sokar, dalla testa di falco, Dio dell'orientamento simile a Garuda. Nelle sue mani tiene le ali piumate del serpente (diretto il collegamento al serpente piumato delle Americhe Quetzacoatl).
    Tale rappresentazione ha la sua controparte geografica nella piana di Giza, detta appunto Rostau.
    Per questo la Grande Piramide è posizionata verso nord proprio sul 30° parallelo, che è il primo meridiano in Egitto.

    La Precessione degli equinozi

    Le misure delle sezioni della strada di Angkor segnano valori che si riferiscono alla cosmologia indù. Espresse nella misura locale il "hat", equivalente a metri 0,4354, otteniamo: 1728, 1296, 864 e 432 hat.
    È interessante notare che le epoche Indù sono quattro e iniziano con il Krita Yuga della durata di 1.728.000 anni, segue il Treta Yuga di 1.296.000 anni, il Davpara di 864.000 anni e il Kali Yuga di 432.000 anni.

    Il Kali Yuga, corrispondente alla nostra attuale epoca, sarebbe iniziato il 3100 a.C., come il Primo regno faraonico in Egitto e il Quinto sole Maya.
    Si avrebbe così il momento del risveglio di Brama, l'inizio di un nuovo ciclo creativo: "dopo che l'universo sarà dissolto, la creazione sarà rinnovata e il ciclo delle quattro epoche ricomincerà con un Krita Yuga".
    Siamo in pieno tema precessionale; il polo nord celeste, che oggi si trova vicino alla stella Polare, a causa della oscillazione dell'asse terrestre, in un ciclo di 25.900 anni, traccia un grande cerchio che si chiama polo nord eclittico. Il punto fisso al centro del cerchio, quello che gli egizi chiamavano "polo di ancoraggio", è collocato nel cuore del Drago, nella parte posteriore del cappuccio, probabilmente anch'esso raffigurato in terra tra i templi di Angkor.

    E, continuando a parlare di Precessione, sono da segnalare le balaustre esistenti ai lati dei ponti, attraverso i quali si entra ad Angkor Thom, formate da due file di 54 gigantesche statue di Demoni e Dèi intenti a tirare il corpo del serpente.
    Percorrendo i sedici chilometri del perimetro esterno di Angkor Thom si scoprono quattro cancelli perfettamente uguali tra loro sormontati da quattro enormi volti sorridenti orientati verso i rispettivi punti cardinali. Ad ogni cancello corrisponde un ponte con parapetti, su ogni lato, composti da 54 statue, per un totale di 108, numero collegato alla precessione.

    All'interno della costruzione si trova una piramide rettangolare a gradini, simile alle piramidi Maya.
    Fra le altre costruzioni il Baphuon, una piramide colossale adagiata su di una base rettangolare di 120 metri per 90 e alta 50. Il nucleo centrale della piramide è una collina artificiale in cima alla quale, in un tempo antico, vi era un tempio. Nonostante sia crollata ha mantenuto la sua forma piramidale. Si ritiene che abbia anche una parte sotterranea uguale a quella visibile. Concetto simile a quello egizio; ogni piramide è posta su una rovesciata, invisibile e sotterranea.
    Particolare noto anche in Cina, ove si costruivano intenzionalmente piramidi a gradini rovesciate, incassate nel terreno.

    Complessi sepolcrali a forma di imbuto e a gradini verso il basso, che potrebbe essere usato come uno stampo, come alcune tombe della dinastia Shang ad An-yang, in pratica una forma cava e negativa.
    Inoltre due, dei quattro condotti di aerazione della Grande Piramide, erano orientati verso due stelle che interessano la zona di Angkor: uno verso Thuban, stella di coda della costellazione del Drago, l'ultimo condotto verso Kochab, che fa parte dell'Orsa Minore, riprodotta ad Angkor vicino al tempio di Ta Sohn.
    Solo coincidenze?

    Risulta evidente l'esistenza di un disegno globale teso a trasmettere un messaggio alle generazioni future.
    Mentre la costellazione del Leone sale in linea con la Sfinge, nello stesso istante quella del drago ad Angkor e di Orione a Giza, si trovano una di fronte all'altra.
    Se tutto ciò fa parte di un incastro preordinato, chi lo ha diretto aveva senza dubbio la conoscenza adatta per contare le stelle.
    Erano gli Shensu Hor, i seguaci di Horus giunti in Egitto nel primo tempo? Coloro che a Ankh-Hor, cioè Angkor, fecero rivivere il loro dio Horus? Coloro che concepirono il progetto nel 10.500 a.C. e ne previdero il completamento nel 2500 a.C. per Giza e nel 1150 d.C. per Angkor?
    Quale è la sorgente di tale conoscenza, che lasciò una profonda impronta in Egitto nel 2500 a.C. e in Cambogia 3500 anni dopo? Perché un riferimento così lontano nel tempo?

    Osserviamo i particolari dei monumenti cercando di carpirne i lati segreti e i messaggi in essi contenuti.
    Il monte a forma di piramide conosciuto come Phon Bakheng è alto 67 metri e costruito su di una sporgenza naturale. In Egitto la Grande Piramide è stata eretta sulla cima di una sporgenza rocciosa naturale.
    Il santuario posto al centro di Phnom è circondato da 108 torri, numero sacro per gli Indù e i Buddisti, che proviene dalla somma di 72 e 36 (metà di 72), ed è legato al fenomeno della precessione. Era considerato sia il centro della capitale che dell'universo, era il simbolo del monte Neru dimora degli Dèi; per questo ognuno dei suoi lati lascia intravedere 33 torri, proprio quanti sono gli Dèi. Il suo costruttore ci informa che lo scopo è di rappresentare con le sue pietre le evoluzioni delle stelle.

    La caratteristica dominante ad Angkor Wat è il massiccio posizionato su est-ovest che combacia con l'alba e il tramonto degli equinozi.
    Bakong a Roluos insieme a Prah Ko e Prei Monli formano il disegno della stella Borealis. Bakong è costruito sopra le fondamenta di un monte artificiale originato molto tempo prima.
    Ad Angkor vi è una tozza piramide a gradini, Il Bayon è situato in cima a una struttura più antica e sormontato da 54 torri di pietra: ognuna porta i quattro volti in stile egizio orientati verso i quattro punti cardinali, in tutto 216 facce. È ritenuto l'ombellico di pietra di Angkor e le leggende parlano di un colossale tesoro custodito al suo interno.

    Così sotto così sopra

    A proposito di storie è bene ricordare che i saggi dell'India antica dedicavano la loro vita a esplorare quella che noi consideriamo la realtà. In questo simbolico viaggio verso la conoscenza affermarono di aver scoperto che il mondo ove viviamo non è reale, ma virtuale, una complessa illusione che ha coinvolto l'intera umanità distraendola dalla via che porta all'acquisizione della completa conoscenza e al risveglio dei ricordi ancestrali necessari per la conquista dell'immortalità.
    Tale allucinazione viene chiamata "Maya" e si può sconfiggerla attraverso la meditazione, la contemplazione, l'elevazione spirituale. Concetto che si ritrova nel Messico, ove la vita veniva considerata come un sogno e la morte il risveglio dell'anima che occupa il nostro corpo fisico.

    I testi ermetici confermerebbero il concetto e ribadirebbero che "tutte le cose in terra sono irreali".
    Quindi giungiamo alla conclusione che, anche se diverse, queste correnti di pensiero concordano nel sostenere che l'umanità sarebbe stata dominata dalla magia di Maya e avrebbe oziato nella stupidità e nell'ingordigia verso le cose materiali per alcune epoche.
    I libri della conoscenza indiani, noti come i Veda, furono scritti da sette saggi dopo l'epoca del Diluvio per salvaguardare la conoscenza.

    In Egitto i Testi della costruzione di Edfu descrivono la conoscenza di sette saggi attraverso la quale si intendeva ricostruire, in questa terra, il mondo come era all'epoca del Primo tempo, quando regnavano gli Dèi.
    I testi di Edfu ci narrano anche che il metodo usato da quei saggi consisteva nella creazione delle "sacre colline", le piramidi nei luoghi ritenuti consacrati alla divinità. Tale fatto è stato accertato anche da recenti scavi.
    Anche ad Angkor i templi sono stati costruiti sopra le precedenti strutture, probabilmente anch'esse innalzate su altre più antiche; come si usò fare con alcune antiche città: vedi Troia e Mohenjo Daro, capitale della civiltà Harappa.

    È certo che le alcune costruzioni, siano esse state erette dodicimila o duemila anni fa, disegnerebbero nei dettagli la formazione del drago come appariva sull'orizzonte all'equinozio di primavera del 10.500 a.C.. Quindi circa undicimila anni fa i Kmer copiarono sul terreno una mappa celeste tracciata migliaia di anni prima che in qualche modo era stata tramandata loro. Lo fecero per risvegliare un ricordo ancestrale, talmente celato nella mente, da venire completamente dimenticato. Tutto questo sarebbe provato dalla data che è la stessa segnalata dalle tre piramidi e la Sfinge egizia, quasi si volesse attirare su tale data la nostra attenzione.

    Angkor racchiude un messaggio simbolico evidenziato dalle 72 strutture in un luogo ove ricorrono spesso i numeri collegati alla precessione; inoltre è evidentemente collegata a Giza che dista a soli 72° gradi di distanza, parte di un disegno globale antico.
    La mancanza di spiegazioni, riguardo la repentina nascita del luogo, il suo ingegnoso e metodico sviluppo, il moltiplicarsi di grandi edifici in una zona invasa dall'acqua e il perché tali costruzioni cessarono d'improvviso, non forniscono prove certe a riguardo.
    È interessante vedere che è stato riprodotto in terra il punto più alto della traiettoria del drago e quello più basso di Orione, cioè il momento esatto che rappresenta la metà del ciclo precessionale, che avvenne nel 10.500 a.C..

    Il disegno di ricostruire in terra ciò che si trova in cielo si riallaccia a quanto scritto nella famosa "tavoletta di smeraldo" base della dottrina Ermetica: "conosco il grande segreto dell'universo, così sotto così sopra, Quello che è sotto riflette quello che è sopra".
    Altrettanto naturale collegare Horus a Ermes considerato il fautore della tavoletta, identificato con Toth, "colui che enumera i cieli conta le stelle".
    Solo chi possedeva una grande conoscenza dei cieli poteva concepire e concretizzare un simile piano, che somiglia sempre di più a un messaggio lasciato ai posteri per avvisarli del prossimo cambiamento, che potrà portare disagi o benefici, a seconda del comportamento e delle scelte operate.

    Mauro Paoletti

    FONTE: www.Edicolaweb.net


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